La tragica scomparsa di una bimba nella comunità di Televras è al centro de “L’eresia del cannonau” di Gesuino Némus. Un pretesto per tornare, in bilico fra lingua sarda e italiana, sui grandi temi dell’amicizia, della lealtà, dell’amore e dell’inclusione
«Dove non può il sostantivo, l’aggettivo ha effetti dirompenti», così, con questa e tante altre perle di saggezza, Gesuino Némus (al secolo Matteo Locci) incantò quattro anni fa lettori e critica, con un delizioso e divertentissimo romanzo d’esordio intitolato La teologia del cinghiale (Elliot), insieme e grazie al quale, lo scrittore sardo si è aggiudicato, tra gli altri, il Campiello Opera Prima ed il John Fante; cioè, due tra i premi letterari più importanti d’Italia.
Némus è un funambolo
Oggi Némus torna senza esitazione ad indossare le vesti del funambolo della parola e, con una disinvoltura ed una classe non comuni, alza il sipario su quel fantastico spettacolo di piroette e numeri che solo lui sa, senza errori, portare a termine, muovendosi tra i pericoli di due lingue così importanti e complesse (il sardo, la sua prima scelta, e l’italiano come lingua straniera) da fare impallidire persino le insidiosissime, mitiche Simplegadi. Il risultato è lì, a beneficio di un lettore curioso e divertito, sempre più sorpreso dalla quantità di riferimenti, tutti calzanti e mai sfrontati; perché Némus è indubbiamente colto, ma non lo vuole ammettere.
Televras-Vigata e la storia
Il ritorno dello scrittore di Jerzu – e soprattutto di quel paesino della Sardegna orientale chiamato Televras, che sta ormai a Némus come Vigata sta a Camilleri – si deve a L’eresia del cannonau (188 pagine, 16,50 euro), romanzo, anche questo divertente e profondo (alcuni, lo so, potranno considerarla una contraddizione in termini, ma vi assicuro che non lo è) uscito a novembre per i tipi di Elliot edizioni. Al centro della storia c’è la tragica scomparsa di una bimba; che sconvolge nel modo più violento e doloroso il languido susseguirsi delle ridondanti giornate della mai doma comunità di Televras e la induce ad organizzare ricerche sempre più difficili in territori che solo con grande generosità potremmo definire impervi.
La comunità chiusa-aperta
Tutti si muovono guidati dalle tre indiscusse autorità del paese: Padre Carlo, il Maresciallo Tigassu e, ovviamente, Samuele Baccanti della omonima “Pubblica mescita Cannonau & Basta”, mentre una pletora di personaggi altrettanto illustri come un aedo centenario che dispensa racconti non verificabili, un eremita dal passato hippy, chiamato “il vescovo” ed un gruppo di non meglio identificati, devoti estimatori del “Cannonau” comincia a disegnare i contorni di una comunità, fiera fino al paradosso delle proprie origini, eppure sempre pronta ad offrire a chi, come Ferruccio – che sardo non è – la possibilità di godere di una terra che «ti può guarire, se davvero la ami».
L’eresia dei semplici
Anche questa volta l’autore non si è accontentato di imbastire la solita trama con finale, più o meno “come da copione”; che, per carità, forse sarebbe andata, comunque, bene. Già sbilanciatosi, direi senza possibilità di ritorno, con La teologia del cinghiale, Némus è tornato, a modo suo, sui grandi temi dell’amicizia, della lealtà, dell’amore e, adesso, anche dell’inclusione, dando voce a tutti quei volti che di solito voce non hanno e che, invece, sanno insegnare “come si insegna veramente: senza voler insegnare”, cioè con le loro vite, i loro sacrifici, la loro pazienza, facendo leva su quella capacità di «tramandare l’eresia e non il dogma» che i semplici, e forse con loro i folli, hanno, «proprio come il Cannonau». Per questo, la recherche, alla fine, non sarà solo quella, necessaria, della bambina.
Gli eserghi
Una menzione a parte meritano, in questo ultimo romanzo di Némus, gli eserghi; qui addirittura in tre lingue: latino, italiano e, ovviamente, sardo, cominciano a diventare delle vere e proprie perle; quasi come quelli di Colin Dexter (anch’egli, d’altra parte, era un isolano).
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