“Cuorebomba” di Dario Levantino riafferma la necessità di buoni romanzi di formazione, che forniscano ai giovani lettori una lente di ingrandimento attraverso la quale vedere le proprie fragilità. L’autore ci fa sentire offesi, disperati, infuriati come lo è il suo protagonista, Rosario
A sancire il vincolo tra Dario Levantino e la sottoscritta c’è stato Di niente e di nessuno, romanzo di esordio dello scrittore siciliano.
In questo primo libro, che ho consigliato e continuo a consigliare moltissimo, Levantino mi ha fatto tribolare, e non poco, per le sorti di Rosario, la sua giovane creatura letteraria, al quale mi sono affezionata come ad uno di famiglia. Logico, dunque, che non mancassi il nuovo appuntamento con il ragazzo di Brancaccio quando si è riaffacciato in libreria.
L’adolescenza da maneggiare con cura
Cuorebomba, edito ancora una volta da Fazi, è il romanzo delle conferme. In primis ribadisce il talento dell’autore, che si estrinseca nella capacità di maneggiare con sensibilità, equilibrio e tanto buon senso, il materiale altamente pericoloso di un’adolescenza diventata fortemente a rischio, esasperata, nelle sue peculiari problematiche, da un contesto socio-economico particolarmente deprivato e da una realtà familiare che, rispetto al libro precedente, qui si fa inesorabilmente tragica. Riafferma, più in generale, la necessità di buoni romanzi di formazione, che forniscano ai giovani lettori una superficie di rispecchiamento, una lente di ingrandimento attraverso la quale vedere le proprie fragilità, uno strumento per dissotterrare e disinnescare le insidie che si frappongono al raggiungimento dei loro obiettivi di crescita.
Ottima, va detto, l’intuizione di voler affrancare Cuorebomba da Di niente e di nessuno. Levantino ha, infatti, reso autonomi i due romanzi. Grazie ad uno “spiegone” introduttivo, senza cadere nell’eccessiva semplificazione, anzi, recuperando integralmente l’atmosfera di amara desolazione in cui avevamo lasciato il protagonista, l’autore sintetizza efficacemente la storia pregressa, svincolando il lettore da obblighi di priorità.
Una discesa all’inferno
Perfetta anche l’evoluzione della trama, cui sta dietro egregiamente il cambio di passo del ritmo narrativo che, più cupo e drammatico, rimane, per fortuna, nuovamente affidato a quella lingua tascìa (neologismo palermitano traducibile con tamarro) della quale Levantino si era servito efficacemente già nella precedente narrazione. Rosario, con ostinazione e orgoglio, continua anche qui a fregiarsene, come di un blasone che gli compete da abitante di Brancaccio, quartiere/casato a cui rivendica d’appartenere.
Del funambolico liceale che a denti stretti cerca un’emancipazione dalle angustie dell’ambiente di origine, del suo idealismo infantile, sopravvive ben poco nel randagio di questi anni di mezzo. L’ultimo tratto di vita preludio all’età adulta è una discesa all’inferno. Il padre in galera, la madre isolata in un’anoressia che è esternazione del buco nero in cui la sua esistenza si è trasformata dopo l’abbandono del marito, il ragazzo finisce nelle grinfie di affidatari disamorati e privi di scrupoli.
Meteore e conforti
Delle figure adulte – assistenti sociali, gestori di case famiglia, insegnanti – che, come meteore, invadono la sua orbita per dominarlo crudelmente, nessuno si prende realmente cura di lui. Unici riferimenti, un prete e un supplente di filosofia. Solo conforto: i libri di mitologia e i classici della letteratura che divora in cerca di sostegno e ispirazione. Residua speranza: le braccia della sua ragazza, nelle quali si rifugia. Levantino ha trasformato Rosario in un “cuorebomba”, in un «debole gentile, in un fragile forte, in uno che al posto del cuore ha un bomba. (…) Chi ha il cuore come una bomba si muove continuamente tra i due poli: quello della felicità semplice e genuina, e quello dello sconforto più cupo e deprimente; per questo motivo, un cuore bomba è indifeso, proprio perché è alla mercé dei sensi. Sa capire il dolore, un cuore bomba, sa soffrire con gli altri, sa mettersi da parte, riceve tutto in maniera amplificata da un’anima sensitiva».
Offesi, disperati e infuriati
Prima di scrivere di un romanzo ne scorro daccapo le pagine, sbircio gli appunti, ripercorro i passaggi sottolineati. Prassi che mi serve, naturalmente, a organizzare le idee. In quel breve lasso di tempo, quando escono di scena i personaggi e il sipario cala sulla trama, mentre brancolo tra gli ultimi riverberi della voce narrante, ripenso alle parole di Maya Angelou: “Ho imparato che le persone possono dimenticare ciò che hai detto, ciò che hai fatto, ma non dimenticheranno mai come le hai fatti sentire.” Quello che, secondo la splendida sintesi della poetessa americana, vale nella vita reale per i rapporti tra individui, conta anche in letteratura per quelli tra scrittore e lettore: il legame tra i due si gioca tutto su come il primo fa sentire il secondo.
Il ruolo dello scrittore è fornire all’immaginazione suggerimenti per capire le persone reali ed entrarci in intimità, innescando circuiti virtuosi. Dario Levantino ci fa sentire offesi, disperati, infuriati come lo è Rosario e tanti altri nelle sue condizioni. A noi lettori il compito di mettere a frutto “la nozione di vita” appresa, onorando, a nostra volta il monito di Maya Angelou: porre attenzione a come facciamo sentire il nostro prossimo.
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