L’amore vero non ha bisogno di nulla per trovare le sue porte, neanche della speranza. L’amore vero è speranza a se stesso. Anche questo sembra dirci Vittorio Magliocchetti col suo “Alle porte dell’amore”, storia di un uomo e una donna, Isak e Lajza, tra ruderi, esplosioni e impensabili tradimenti
C’è chi sostiene che leggere sia, in fin dei conti, un modo come un altro per aver sempre una strada da percorrere, dinanzi a sé, anche quando gli asfalti si sgretolano, i ponti crollano, e sul ciglio di via d’ogni esistenza cominciano a venir fuori le erbacce.
Per chi la vede così, per chi cioè ritiene che lo spirito invisibile della lettura possa essere la speranza, non è difficile immaginare che uno scrittore possa essere chi, in una maniera o nell’altra, lavora all’edilizia di questa speranza. Uno che costruisce, coi materiali di risulta della sua anima e con la terra che porta dentro, quelle strade su cui altri possono ancora provare a camminare.
Vittorio Magliocchetti, alla sua prima esperienza editoriale, potrebbe senz’altro far parte di questa categoria di scrittori; potrebbe farne parte perché, nel suo caso, l’immagine di uno che costruisce strade di speranza non è solo lo sforzo di un concetto simbolicamente descrittivo ma proprio l’effetto di un chiarissimo tentativo. Di alcuni puoi dire: «Quel romanzo mi ha aiutato a fare un po’ di strada in avanti”; di lui puoi certamente affermare: “Quell’autore ce l’ha messa tutta per aiutarmi a camminare, e ne ho colto tutta l’intenzione!».
Preparare una strada
Esattamente a questo ci riferiamo quando, volendo spendere qualche parola su Alle porte dell’amore (248 pagine, 17,90), edito da BookSprint, ci troviamo d’accordo con tutti coloro i quali, dopo averlo letto, ne hanno percepito un qualche spirito “profetico”, dove l’aggettivo non ha niente a che vedere con vuote e divinatorie previsioni: profeta è, nella più tradizionale semantica, chi dà voce a qualcuno e gli parla avanti, preparando una strada in mezzo al deserto perché altri non smarriscano la propria, alzando la voce, gridando se necessario.
Ora, in effetti, non si capisce bene se Magliocchetti prepari questa strada al suo lettore o al protagonista della sua storia, o in fondo – come ci si aspetta dall’innocente tornaconto di ogni narratore – anche un po’ a se stesso. Certo è che queste pagine, fin dalle prime righe, ti sospingono ad andare avanti. E non è solo un “avanti narrativo”; non è solo un passare da una pagina all’altra, desiderando già di conoscere quali misteri siano svelati nella successiva (questo succede anche); si tratta piuttosto di un “avanti interiore”, un sospingere che avviene dentro, che si percorre dall’interno insieme a coloro che, in questa storia, ci fanno udire le loro voci.
L’essenza di una tragedia shakespeariana
Ambientato in Kosovo, il racconto ci fa procedere a piccoli passi da quel che all’inizio sembra solo una preoccupante turbolenza sociale a ciò che, nel giro di pochissimi anni, diviene guerra vera e propria. Anzi, solo “propria”. Perché “vera” una guerra non può mai esserlo. Per quanto siano drammaticamente “vere” le ragioni che l’hanno causata, per quanto siano “vere” le macchie di sangue innocente lasciato a marcire su rovine di cemento armato, per quanto sia terribilmente “vero” tutto questo… beh… la guerra non avrà mai l’onore di essere associata al concetto di “verità”. Non potrà mai esserci una guerra “vera”, perché la verità non sceglierà mai la guerra.
La verità sceglierà l’amore. Questo sì. Un vero amore sarà possibile anche lì dove c’è una guerra.
L’autore si incammina sulle macerie di questo versante che egli fa di tutto per far apparire irrecuperabile: sceglie un sentiero di amore tra mille altri fatti di ruderi, esplosioni e impensabili tradimenti. Già questa scelta è rivelazione dell’essenza del romanzo che, proprio per questo, costruisce una strada e la dirige fino a quelle “porte” che il titolo ci invita a dischiudere; porte che, ben inteso, nessuno potrà aprire al posto nostro. Nessuno, neanche chi ha scritto questa storia.
Isak e Lajza, protagonisti di tutta la narrazione, vivono l’essenza di una tragedia shakespeariana che sembra una tormentata eco costretta a riverberarsi nei secoli, dove non sono più due famiglie rivali a impedire che un amore possa realizzarsi secondo i disegni eternamente iscritti nell’animo umano, ma due etnie. La follia esclusivista dell’essere umano che, per voler essere “più uomo” degli altri, rinuncia persino all’umanità.
Educarci allo scandalo
Questo lo sfondo del dramma. E potrebbe ripetersi altre mille volte, in ogni epoca e luogo del mondo, e non correrebbe mai il rischio d’essere una ripresentazione usurata, perché lo scandalo di certe tragedie porta in sé uno strano gene che lo rende sempre nuovo e originale. Forse proprio perché, mescolato allo scandalo, resiste quel principio di amore che non può mai invecchiare ma che anzi, per sua stessa natura, richiama all’essere la novità delle cose; anche di quelle che ci fanno piangere o, come avviene in certe pagine, accapponare la pelle.
E si comprende – proprio in questi casi – che anche la voluta indecenza di certe descrizioni, talvolta crude e senza sconti, ha un suo fine pedagogico: educarci allo scandalo per impedire che, dinanzi a certe cose, ci si possa mai abituare. Noi che, certe cose, le abbiamo magari sentite solo al telegiornale, rubricandole a semplici corollari d’informazione. Cose che abbiamo sentito e risentito mille volte, accadute in ogni possibile ovunque, ma che alla fine ci hanno solo sfiorati come delle rette tangenti sulla serrata ed inaccessibile circonferenza di una vita tranquilla e senza colpi di kalashnikov. Rette che, però, sono vite di altre persone. Rette proiettate all’infinito, fatte per l’Infinito! Ma ridotte ad essere parallele rispetto alle nostre vite, senza dunque nessuna possibilità di incontro; o peggio, degradate a indegni segmenti di sopravvivenza dove, riprendendo un pensiero di Neruda condiviso dall’autore, quando un amore umano perde persino la speranza, rimanendo al netto di ogni ragionevole motore di possibilità, allora non può che essere “vero” amore. Perché l’amore vero non ha bisogno di nulla per trovare le sue porte, neanche della speranza. L’amore vero è speranza a se stesso, è fede in se stesso.
Generare umanità contro l’indifferenza
Il romanzo di Magliocchetti, scritto da chi certi scenari li ha sperimentati davvero osservandoli coi propri occhi increduli di sposo e di padre, non è fatto per appassionare; sarebbe troppo poco. Non è un documentario, né una cronaca, né una storia ricavata da ritagli di vite altrui. Nulla di tutto ciò. È una qualunque storia d’amore, già… una storia d’amore qualunque. Perché ogni amore è “qualunque” finché non succede qualcosa, o qualcos’altro è negato al succedere. Allora ci si accorge che non può esistere banalità neanche nel più “banale” tra gli amori. Magliocchetti fa semplicemente in modo che ce ne accorgiamo. Fa in modo che, da un certo punto in poi della storia, gli elementi presi in prestito dalla quotidianità dei protagonisti ci richiamino alla nostra vita di tutti i giorni, facendoci scorgere il terrificante divario tra la realtà che viviamo e quella che avremmo potuto vivere “se”… Se ci fossero successe le stesse cose accadute ad Isak e Lajza.
Eppure, questi due, chi li avrebbe mai conosciuti se queste pagine di Magliocchetti non ce li avessero raccontati? Chi legge il libro sente il fastidio che due personaggi come questi, solo per il fatto di avere un maledettissimo nome, vengano fuori dal distantissimo universo di una cronaca asettica e ci dimostrino, invece, di far parte a pieno titolo della nostra stessa realtà! Qualcuno dirà che possono essere solo personaggi inventati, promossi alla dignità di emblema umano; figure “demagogiche” insomma, tracce di mitologie moderne che dunque non necessariamente potrebbero avere il potere di suscitare alcunché di vero. Quasi una ripresentazione di Adamo ed Eva i quali, per ciò che ne sappiamo, potrebbero non essere mai esistiti… Ma l’umanità esiste, in una maniera o nell’altra, e quali che siano stati i suoi progenitori, ad essi e alla loro storia deve rendere conto. Così è per Isak e per Lajza: potrebbero essere esistiti, oppure no. Non importa. La loro storia genera umanità per il semplice fatto che può generare vite nuove, non più avvolte dal sudario dell’indifferenza.
Cera fragile ma che illumina
È dunque una storia verosimile; potenzialmente reale. Certamente vera. Perché vera è l’intenzione con cui viene narrata, perché tragicamente reale è il suo contesto e perché paurosamente verosimili sono le possibilità che, da ogni pagina, sembrano metterci in guardia dal non dare nulla per scontato, mai, neanche quando scagliando dei sassolini tra le increspature di un fiume ci illudiamo che possa essere solo un gioco, o un inganno dell’ozio.
Un libro, quello di Magliocchetti, che si consuma come una candela, fragile di cera ma proprio per questo capace di illuminare. Una storia certamente ben scritta, con la tipica caratteristica di chi scrive per la prima volta: l’incoscienza tutta poetica e selvaggia di fidarsi di ciò che si sta raccontando, senza preoccuparsi di nessuno schema preconfezionato. E non per questo senza stile, anzi! Forse solo chi scrive un romanzo per la prima volta conserva il peccato originale di non saper rinunciare mai al vero racconto! Per questo, pur non volendo appassionare, ci riesce benissimo. E lo fa nel modo più fedelmente etimologico: non limitandoci all’emozione, ma conducendoci alla passio, al dolore di quel pathos che – in fin dei conti – è l’unico capace di far crescere l’anima.
Una prima storia, speriamo non l’ultima, e capace tuttavia di poter essere anche l’unica. Non perché abbia pronunciato tutto il dicibile, ma perché ha sfiorato l’Indicibile. Quell’ineffabile mistero di completezza che si può trovare solo alle porte dall’amore, ad un solo passo da esso.