“Troppo lontano per andarci e tornare”, romanzo di Stefano Di Lauro è un balsamo per l’anima, che trasporta in un’atmosfera quasi onirica, coinvolgente ma mai invadente, anzi, morbida e cullante. Protagonisti i circensi di una compagnia che il 31 dicembre del 1899 salpano dal porto di Le Havre, in Normandia, alla volta di Buenos Aires
Un testo il cui mio personale apprezzamento è direttamente proporzionale alla difficoltà di recensirlo pennellando efficacemente le molteplici impressioni che il racconto esercita sul lettore… o, almeno, su di me.
Scrittura ricercata e raffinata
Comincio allora col dire che il libro è davvero un bel libro anzitutto perché riesce in quella che oggi, nell’era della destrutturazione del linguaggio e del pensiero complesso, è un’impresa non da poco: iscriversi nella scia dello stile tipico dei romanzi moderni, pur rimanendo saldamente contemporaneo, mai pesante o fuori dal “nostro” tempo, forse perché il vero tempo della narrazione non è kronos, tanto che l’intreccio per valore e senso supera la trama. In secondo luogo perché – aspetto a mio avviso e per mio gusto per nulla secondario – il profilo linguistico del romanzo rappresenta quasi un unicum singolare e di livello: una scrittura ricercata e raffinata, ma mai supponente e altezzosa – ammetto che sono dovuta andare a cercare non pochi termini sul vocabolario, cosa che mi ha entusiasmata se penso che difficilmente oggi leggo qualcosa che non suoni di, o peggio sia, già visto e già sentito – e intelligente nella costruzione del plot, appunto; in tal senso si vede chiaramente l’abile mano del regista. Particolarissima poi la scelta dei personaggi e la loro caratterizzazione.
L’ultimo giorno del XIX secolo
La scena iniziale fotografa l’ultimo giorno del diciannovesimo secolo: è il 31 dicembre del 1899 quando dal porto di Le Havre, in Normandia, salpa, diretto alla volta di Buenos Aires, il piroscafo mercantile Holy Steam. Nella stiva del vapore viaggia la compagnia del piccolo circo Au Diable Vauvert, composta dai fratelli Méliès, Orlando, Prosper e Lou, che la compagnia l’hanno proprio fondata in barba al padre notaio – sarà che il 1899 è anche l’anno della pubblicazione de L’interpretazione dei sogni di Freud e che sono “affetta” da deformazione professionale, ma questa circostanza a me ha ricordato non poco la dinamica del conflitto edipico –, l’acrobata Ailes, la giunonica Mardea e il piccolo Nounours.
La conclusione di un anno che coincide con la conclusione di un secolo e di un’intera epoca; un porto; una nave con un nome evocativo e “impalpabile”; un gruppo di artisti dai nomi che non possono non incuriosire. Per inciso il Diable porta con sé una scimpanzé, Chouchou, e una lupa, Antoinette. Basta solo elencare questi elementi per renderci conto che Troppo lontano per andarci e tornare racconta di un viaggio che è soprattutto metafora della vita, della ricerca di se stessi e dell’inconscio, profondo e irrinunciabile richiamo di alcuni tra i più importanti archetipi letterari – il viaggio, l’avventura, l’altrove… – e psicologici – il saggio, il custode, il governante, il fuorilegge, l’amante, l’orfano…
Un viaggio, moto simbolico
Quindi il viaggio che si dipana attraverso le pagine del romanzo è soprattutto un moto simbolico, metaforico, più di ricerca che di scoperta, sospinto dal bisogno di provare a scorgere il proprio posto nel mondo dove essere accettati per quello che per scelta, per destino o per natura, si è e, altrimenti, non si potrebbe essere.
Devo ammettere che c’è voluto un po’, complice la mia scarsissima conoscenza del francese, perché familiarizzassi con la struttura corale del romanzo e anche perché comprendessi, al di là della spiegazione, il senso del nome del circo: l’espressione Au Diable Vauvert deriva da una consolidata locuzione francese che designa – cito testualmente – “luoghi vaghi, lontani, inaccessibili; posti dimenticati da dio e dagli uomini, situati alla fine del mondo o in capo alla luna”. Un po’ come il nostro in capo al mondo insomma… o, quantomeno, così mi pare di aver capito.
Chissà, quindi, quali terre e quanti mari hanno visto questi circensi? Mi dispiace deludervi perché, contrariamente a quello che potreste pensare, quella del 31 dicembre è la prima volta in cui la compagnia lascia la Francia; ciò non di meno i suoi componenti hanno percorso tantissimi itinerari, mangiato la polvere della strada, calcato lo stesso, ma mai uguale, palcoscenico in tantissimi luoghi, tanto che potremmo definirli dei viandanti dell’anima o dei migranti della vita. Quella del Diable è però una compagnia di viaggiatori solitari, perché, nonostante il loro stare insieme, essi restano pur sempre una compagnia e mai diventano gruppo.
«Perché? Che differenza c’è?» direte voi. Proverò a darvi la mia lettura della questione. Sebbene i due termini – compagnia e gruppo – possano sembrare sinonimi, ed effettivamente il loro campo semantico sia parzialmente sovrapponibile, vi è una sottile, ma sostanziale differenza: la parola gruppo deriva dalla radice indoeuropea krupp e letteralmente significa groppo o nodo, ovvero ciò che lega ma al tempo stesso vincola, talvolta fino al punto di strozzare; mentre il termine compagnia, dal latino cum panis, letteralmente colui con cui si divide il pane, richiama alla necessità del bisogno primario di nutrimento attraverso il riconoscimento e il legame. Dicevamo che i componenti del Diable, vivono, sì, insieme e condividono, sì, moltissime cose, tuttavia mai sembra abbandonarli un sottile velo di malinconia che pare generarsi dalla mancanza, dalla nostalgia o dall’assenza di qualcosa o qualcuno. Sarà un caso la citazione di Rilke che apre il libro? In questo consiste l’amore: che due solitudini si proteggano, si lambiscano e s’inchino l’una innanzi all’altra.
L’amore, protezione di solitudini
Di Lauro immagina il Diable come un porto sicuro in cui gli artisti che ne fanno parte possono smettere di proteggere – oserei dire nascondere – ciascuno la propria diversità e vivere l’amore come reciproca protezione di solitudini pressoché profondamente insormontabili.
A dire il vero, oltre ai personaggi che si incontrano nell’incipit del romanzo, molte altre storie si dispiegano nelle pagine del manoscritto a conferma che Au Diable Vauvert è un mondo in movimento e soprattutto libero, non ingabbiante, dal quale si può entrare e restare finché ogni singolo componente riconosce di farne liberamente parte o, viceversa, dal quale di può uscire senza rancore e livore, benché non senza dolore e non senza aver lasciato al Diable un pezzettino di sé. Una realtà portata avanti in solitaria compagnia, da un insieme di solitudine fuori dall’ordinario.
Il proprio posto nel mondo
Le biografie dei protagonisti, poi, si intrecciano magistralmente con la storia e la vita del circo e, sebbene particolarissime, ognuna nella propria unicità ed eccentricità, sono accomunate da due aspetti: l’essere in qualche modo, ognuna per una qualche ragione, speciale, fuori dal comune e l’aver trovato solo sotto quel tendone, itinerante per definizione, il proprio posto – a volte solo temporaneo, appunto – nel mondo.
Per non parlare del potenziale evocativo dei nomi e soprannomi dei protagonisti dal suono quasi parlante e onomatopeico persino per il mio orecchio che, ripeto, il francese lo sconosco.
A fare da sfondo la dolcezza, lo spirito intuitivo, la fedeltà cieca di Chouchou e Antoniette e le suggestive cartoline degli angoli più sordidi della Francia di fine secolo, di cui anche in copertina riecheggia il ricordo dei quadri impressionisti, il tutto incorniciato dalla magia dell’arte declinata in tutte le sue forme e le sue espressioni – la musica, la letteratura, la fotografia, la scenografia, l’arte del palcoscenico… Anche in questo caso ritorna più volte nel corso del libro un’eco dello Zibaldone (Anche un’opera d’arte ispirata dalla disperazione nutre di vita l’animo di un uomo) a evocare che l’arte può generare una meraviglia dal potere catartico e – perché no? – salvifico unico nel suo genere.
Se dovessi dirvi qual è la sensazione che il romanzo mi ha lasciato in maniera pervicace è quella di essere stata trasportata in un’atmosfera quasi onirica, coinvolgente ma mai invadente, anzi, morbida e cullante – sarà che siamo immersi tra le onde del mare e il vapore sacro – a dimostrazione che si può parlare degli aspetti meno belli o meno battuti della vita, così come di quelli piacevoli o gratificanti, con delicatezza e sensibilità, senza per questo perdere d’incisività.
Il titolo e quel posto
Vi lascio, infine, con questa mia personalissima riflessione. Per tutta la durata del libro mi sono chiesta: «Ma perché questo titolo? Perché proprio Troppo lontano per andarci e tornare?».
Forse il perché l’ho capito solo ora, scrivendo questa recensione e leggendo e rileggendo la frase del libro su cui l’occhio continuava imperterrito a ricadere; un passo eccezionale non solo per il valore descrittivo, ma soprattutto per la poeticità delle immagini e il suono, delicatamente mesto, delle parole scelte.
«Quelli del Diable seppero […] che siamo tutti naufraghi della nebbia, e destinati a ritornarci, attraversando lacune senza rimedio e affetti sempre incompiuti; e che si viaggia da soli, perché anche l’equipaggio che ci è dato di incontrare è fatto di naufraghi della nebbia; e che non è mai dato di sgranare per intero il frutto altrui, il cui seme resta incondivisibile, come pure lauti morsi di polpa».
Che forse il posto troppo lontano per andarci e tornare sia l’anima dell’altro e l’Altro della nostra anima?
Buona lettura a tutti voi e in ogni caso grazie a Di Lauro perché romanzi come questo sono un balsamo per l’anima.