Correre, lottare, sopravvivere: il kenyota di Gagliani

Un volume di denuncia sociale, “Romanzo Caporale” di Annibale Gagliani, dalla scrittura poetica e musicale. Una parabola inevitabile dall’Africa all’Italia per il protagonista, che finisce nella rete del caporalato. Tra violenze e dolore, però, esiste qualcosa di infinitamente più grande

Con una scrittura affilata capace al contempo di scivolare poetica e musicale come un carillon ipnotico, Romanzo Caporale (114 pagine, 8,40 euro) di Annibale Gagliani, (pubblicato da I Quaderni del Bardo di Stefano Donno Editore, con prefazione di Fabrizio Peronaci, postfazione di Raffaele Gorgoni, copertina curata dal fotografo internazionale Massimo Bietti) è un quaderno di denuncia sociale raccontato con la maestria del cronista e del romanziere, «che guarda le cose fino a vederle». Il protagonista senza nome, rimasto orfano di madre, vive la sua adolescenza in Kenya, oscillando tra l’educazione alla bellezza di una speranza raccontata dai suoi insegnanti di arte e letteratura, e la cinica, violenta realtà che lo circonda. Una bellezza sterile, attorno a lui, violentata da una politica che non promuove, ma avvelena: «Il Nilo è testimone di fame, narratore di guerra. Non basta il limo per dimenticare, nel Continente Nero, ogni singolo harem di bellezza flirta con la morte».

L’arrivo in una terra intollerante

Attorniato da un senso avulso di pochezza e povertà: «L’acqua era un terno al lotto, il latte un privilegio per pochi (…) perdevamo continuamente amici e parenti e conoscenti», ancora giovane, il kenyota sarà costretto a scegliere la strada da percorre per inseguire il sogno di una vita migliore. Cosa fare, allora? Salvarsi e sopravvivere, o restare e soccombere. Come il sacerdote pugliese Donato Panna (realmente esistito), il missionario umile al servizio dei poveri conosciuto per il suo grande amore per il prossimo, per i poveri e per la sua dedizione totale verso i bisognosi, e amico del ragazzo kenyota, si propone egli stesso leader di un movimento di liberazione politica e delle coscienze, ma finisce nel mirino della polizia locale ed è costretto alla fuga. Come fossero comandamenti di fede: correre, lottare e sopravvivere, diventano muscoli necessari per lasciare quei luoghi di dolore e ricominciare, non per vigliaccheria ma per costruire un avvenire di pace per la sua famiglia. La disumana navigazione sul Mediterraneo lo conduce in una terra intollerante.

Labirinto predatorio e violento

Sbarca in Italia e diventa schiavo di un fenomeno umiliante: il caporalato. Salvarsi per salvare dunque, ancora una volta, se stesso e chi, come lui, vive la medesima, violenta, condizione di emigrato, di negro in terra di bianchi: perché la solidarietà ha un riflesso di gioia, è una pace necessaria, a costo della vita. Perché sa che, al di là di tanto dolore, esiste qualcosa di infinitamente più grande, proprio come l’arte, la letteratura alle quali aveva riposto il sacrificio dello studio. Il Bel Paese in cui il kenyota approda, è un labirinto predatorio e violento, ma «il rischio altissimo porta a superare i limiti (…) mi riferisco  a quel meccanismo vitale, l’imperterrita propensione a non voler morire, a resistere lottando nonostante tutto che ci porta a diventare eroici». È allora la speranza a muovere ogni ingranaggio di lotta e fiducia, consapevole che anche per lui ci sarebbe stato un epilogo da «uomo libero in libero Paese (…). L’Italia è pur sempre il paese che ha salvato oltre ventimila albanesi da un brutto epilogo. È accaduto trent’anni fa, non saranno cambiati».

Un mondo che finge di non sapere

Come scrive Raffaele Gorgoni nella postfazione, il libro di Annibale Gagliani  «È il Cuore di tenebra della porta accanto […] le pagine seguono, passo dopo passo, il doppio itinerario fisico e mentale di un migrante, con la precisione straziante di chi sa, in un mondo che si accanisce nel fingere di non sapere». «Tutto quello che si riteneva sepolto per sempre sotto le macerie della Seconda Guerra Mondiale è più vivo che mai. […] L’Europa, l’altra Europa, quella che dopo gli orrori del nazismo, del fascismo, del franchismo e del salazarismo e di Vichy, scandì le retoriche del mai più, oggi balbetta la sua indignazione e incespica in ovvietà buonsensaie. Ma il migrante raccontato da Annibale Gagliani sa».

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