Ci si immedesima nella bambina protagonista di “Come diventai monaca” di Cesar Aira. Un suo banale gesto porterà una scia di sangue, dolore, morte. Lo scrittore argentino sa sovvertire la realtà, la prospettiva dalla quale guardiamo all’oggetto narrato. E l’epilogo è inaspettato…
Cesar Aira è uno scrittore “miracoloso”, nel senso più pieno del termine. Miracolosa è la sua vastissima produzione letteraria, miracolosa è la sua scrittura dotata del potere della sintesi. Con poche, misurate parole, Aira catapulta il lettore in una dimensione vasta eppure specificamente delineata.
Non una parola in più del necessario, non una frase elaborata per stupire. Eppure, questa prosa coinvolge il lettore a tal punto da essere fagocitato dalla storia.
Come diventai Monaca (107 pagine, 16 euro), edito da Fazi, è un racconto in prima persona e, per quanto io trovi abusata questa forma stilistica, riconosco ad Aira la capacità di dettare tempi e modi del soggetto narrante grazie alla capacità di trasmettere sensazioni, umori e sentimenti.
Dai capricci ai drammi
La protagonista è una bambina di circa sei anni, inconsapevole e ignara del mondo che si comporta e agisce come una bambina, salvo che i suoi capricci, i suoi comportamenti generano una serie di eventi incontrollabili e drammatici. Un gesto banale quale il rifiuto di mangiare un gelato avariato porterà una scia di sangue, dolore, morte.
Aira ha riscritto la tragedia. L’epicità della tragedia greca, quella stessa tragicità che troviamo in Shakespeare è negata e sovvertita, annullata. La tragedia si trasforma in farsa, tragica farsa con un carico imprevisto di morte. Con piena consapevolezza, la protagonista narrante afferma:
«Il dramma cominciò dopo… chissà perché il dramma comincia sempre dopo che è iniziato. La commedia, invece, sembra cominciare prima»
L’autore gioca con il lettore
E qui, nell’affermare che il dramma si rivela “dopo”, Aira semina un indizio importante sull’epilogo. Se è tragedia, si è ormai consumata, quindi il lettore ne viene a conoscenza ‘a posteriori’. L’autore gioca con il lettore. Tutto il romanzo è una sciarada di parole ben comprensibile nella lingua madre e di difficile trasposizione nella lingua italiana, e tale sciarada è contenuta già nel titolo stesso (non fare spoiler diventa difficile).
Nella costruzione di questo dramma, pare di rileggere le leggi della fisica, della Einsteiniana relatività ristretta (sviluppata poi da Minkowskj): ogni evento è generato da un cono di eventi passati e genera un cono di eventi futuri (i fisici perdoneranno la profana semplificazione!). Noi conosciamo gli eventi del passato, ma non possiamo conoscere la traiettoria di quanto accadrà nel futuro a partire da quel singolo evento. Per questo motivo la tragedia non è prevedibile e può derivare anche da azioni infinitesimali, apparentemente ininfluenti e conoscibili a posteriori. Quali, appunto, il pianto di una bambina per un gelato immangiabile.
Più comportamenti che sentimenti
I personaggi che girano intorno alla piccola protagonista sembrano diventare vittime di questo evento, sembrano non voler evitare la tragedia, anche potendo. Il padre che reagisce con una violenza inaudita alla frode del gelataio, lo fa per proteggere la figlia? No, lo fa solo per sfogare il suo odio, la sua frustrazione, il suo cattivo carattere. La madre potrebbe proteggere meglio l’ignara bambina, ma non riesce. Lo fa per mancanza d’amore? No, solo per impotenza, per incapacità di guardare oltre l’apparenza. Il pericolo è in agguato ovunque, ma nessuno lo evita.
I personaggi emergono da pennellate, da azioni e da decisioni, da comportamenti più che da sentimenti e sfumature, gesti che definiscono l’esperienza altrui.
«L’essere umano tende ad attribuire un senso all’esperienza mediante la continuità»
L’epilogo è inaspettato. Il lettore resta sconvolto dalla conclusione che è impossibile presagire fino a poche pagine dalla fine.
«Ormai non restava altro che il blocco di realtà intrattabile, il rabbioso verosimile»
Linguaggio modellato e realtà sovvertita
Aira conferma la sua capacità di modellare il linguaggio alla propria volontà, lo fa con raffinatezza e tale raffinatezza è restituita dalla traduzione curata da Raul Schenardi, non nuovo alla traduzione di Aira, già affrontata con Il pittore fulminato. Leggiamo le pagine e ci immedesimiamo nella bambina. Sentiamo e pensiamo come lei, piccola creatura sconvolta dalla prospettiva di deludere il padre, più che dalla realtà di un barbaro omicidio. Nella sua testa la tragedia trova fondamento nelle piccole cose quotidiane perché di quelle è fatta la vita.
Aira ha la capacità di sovvertire la realtà, la prospettiva dalla quale guardiamo all’oggetto narrato. Come in Il pittore fulminato, siamo costretti a una immedesimazione forzata attraverso gli occhi della bambina, che pur adottando un linguaggio semplice, analizza fino alla scomposizione minima ogni sentimento, ogni piccolo evento che condiziona l’azione e porta all’epilogo. Lo straniamento è a mio parere portato proprio da questo contrasto tra un linguaggio fanciullesco (senza connotazione negativa) e la complessità dell’oggetto narrato.
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