Intervista al curatore dell’opera omnia di Sciascia – in libreria il tomo conclusivo – per Adelphi, l’uomo che ha “riverniciato” filologicamente i testi dello scrittore: «L’eredità di Ambroise? Per me un privilegio, ma le nostre edizioni non sono paragonabili. la mia un’operazione diversa, che lui stesso capì. Nei decenni sono emerse novità importanti dagli studi sciasciani, lui fu anche barocco e ottimista. Continuerà a parlare ai lettori a distanza di secoli, come i classici greco-romani. Lettere da ritrovare e scritti dispersi? Non ci sono contorni definiti»
Se negli ultimi trent’anni c’è chi non ha creduto alla morte di Leonardo Sciascia né tantomeno a quella della materia incandescente e sulfurea di cui sono fatte le sue opere – fede nell’uomo e nella ragione come lezioni di dubbi agli interlocutori, coerenza a oltranza, alla Bernanos («Preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli», pensiero dello scrittore francese ed epigrafe di A futura memoria), libertà di pensiero – buona parte del merito va a chi ne ha coltivato la memoria, con quel gesto antico e nobile che è la pubblicazione di libri. Se ciò che ha scritto continua a svelare gli inganni occultati nel «buio mistificato in luce» (Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia), se Sciascia è rimasto una stella fulgida e fuori dal coro, da maneggiare con cura, un fuoriclasse che, per dirla alla Moravia, «partiva dalla chiarezza per arrivare al mistero», la casa editrice Adelphi può appuntarsi una medaglia al petto, con i suoi infaticabili collaboratori, a cominciare da Paolo Squillacioti, classe 1965, calabrese che ha completato gli studi alla Normale, direttore dell’Istituto CNR Opera del Vocabolario Italiano, curatore delle opere complete di Sciascia per la casa editrice di Roberto Calasso. Le migliaia di pagine che questo studioso – presente a tutti gli appuntamenti celebrativi a 30 anni dalla morte di Sciascia, da Milano a Palermo, da Racalmuto a Parigi – ha restituito con rigore filologico raccontano pienamente Sciascia, uomo dei silenzi, letterato finissimo, scrittore del dissenso, intellettuale disorganico e critico palpitante del potere.
Squillacioti, sono trascorsi trent’anni senza o con Sciascia? È stata più forte l’assenza o la presenza?
«Posso dare due risposte. Quella soggettiva riguarda la mia vita, non sono riuscito a sentire il vuoto, perché le mie giornate sono state estremamente piene della sua opera, che ho iniziato a leggere poco più di trent’anni fa. Quella oggettiva è ambivalente. La do con i miei mezzi, non ho le capacità di uno storico della letteratura o di un critico. Dopo tanti anni ciò che Sciascia ha scritto regge perfettamente i cambiamenti, per molti aspetti resta attuale, la sua attualità torna forte, prepotentemente, quasi unanimemente, anche laddove gli si era dato ampiamente torto, quando era in vita. Non saprei, però, visto come e quanto velocemente sono cambiate le cose, come si muoverebbe Sciascia in una società di slogan, lui che era abituato a ragionare e ad articolare il proprio pensiero, o in un mondo politico molto diverso da quello che lui ha visto da vicino, o come giudicherebbe questa nostra società ipertecnologica, lui che era così distante dalla tecnologia. Penso che la risposta soggettiva sia la migliore».
Sciascia è stato certamente un testimone esemplare del tempo che ha vissuto. Nel presente di inganni e fake news, potrebbe sembrare fuori tempo massimo. Ma è forse attuale perché ha sempre visto l’uomo senza illusioni, così com’è, con i suoi limiti?
«Lui è uno di quegli scrittori diventati classici, è assurto a questa categoria per certi versi indefinibile, non tutti lo diventano, i più sono apprezzati nel loro tempo. Lui continuerà a parlare ai lettori a distanza di secoli, come certi autori del mondo greco-romano. Naturalmente bisogna e bisognerà estrarlo dalla contingenza, dai fatti concreti che analizza, altrimenti la sua lettura sarebbe limitativa. Bisogna leggerlo come si legge Seneca, non museificarlo, ma farlo assurgere alla posizione di grande classico della cultura italiana e non solo. È una dimensione che mi sembra indubitabile, ma può darsi che io sia un perito di parte…».
Nei decenni, probabilmente, sono venute meno quelle che sembravano stelle polari della galassia Sciascia e che invece, specie se forzati, finiscono per essere incasellamenti stereotipati e simulacri riduttivi – Sciascia il mafiologo e Sciascia il lucido illuminista – ma quali spazi della sua dimensione d’artista rimasti in ombra sono emersi?
«Dal punto di vista della ricerca e del microcosmo degli studiosi di Sciascia ci sono state novità importanti, si scandagliano prospettive interessanti e diverse da certe trite e ritrite del passato. Io in parte sto provando a dare il mio contributo. Prima di tutto è emersa definitivamente la qualità letteraria delle sue opere, la sua grandezza di scrittore. È avvenuto rileggendo le sue opere oltre l’impatto polemico che spesso le accompagnava all’uscita. Molti, magari, non andavano oltre i titoli e le anticipazioni. Che avesse strutture e moduli illuministi è innegabile e noto unanimemente, ma c’è un’altra dimensione totalmente opposta nella sua opera, diciamo più analogica e barocca, che fa capo a Borges più che a Voltaire. Grazie ad alcuni studiosi si presta più attenzione a questo aspetto, che emerge già negli anni Cinquanta, in testi noti, non in carte nascoste o segrete. Certe cose erano evidenti, lì, eppure non si vedevano, si attraversano sempre gli stessi territori, si percorrevano sentieri battuti».
Come ha vissuto la pesantissima eredità di Claude Ambroise, che Sciascia volle per curare le sue opere per Bompiani?
«Per me è un assoluto privilegio che non pensavo di meritare e non è una formula retorica. Credo di avere conquistato gradualmente la sensazione e la consapevolezza d’essere all’altezza del compito che mi è stato assegnato. È un privilegio, ma anche un onere pesante. Il confronto con Ambroise non c’è, nemmeno a livello ideale, nel senso che l’edizione curata da me non può essere paragonata alla sua e all’enorme impatto che ha avuto. Io stesso non avrei potuto iniziare i miei studi sciasciani senza quell’edizione pensata da Ambroise e dallo stesso Sciascia. Col beneplacito dell’autore ha tirato fuori testi che altrimenti sarebbe stato impossibile leggere. Ha costituito un momento di svolta, per cui ho un rispetto assoluto, la sua edizione è irripetibile dal punto di vista culturale. Ho avuto bisogno di un confronto diretto con lui, una sorta di autorizzazione ideale per lavorare tranquillo. Parlammo qualche volta, in particolare una a Firenze, durante una lunghissima passeggiata. Lui era alieno da ogni tentazione filologica, era un prodigioso critico letterario, di grande finezza. La mia operazione era diversa, lo capì e mi disse che era legittimo farla. È stato un passaggio molto importante, per me, per procedere».
Come c’era bisogno di intervenire?
«Era necessario affrontare le opere complete da un altro punto di vista, perché i testi letterari sono organismi e se hanno il raffreddore devono prendere un’aspirina, per evitare malattie più gravi. C’erano dei segni di fisiologica decadenza nel testo sciasciano. Alcuni erano più curati, altri meno, rischiavano di ammalarsi, di perdere qualcosa a ogni passaggio. Stavano diventando vaghe le date di pubblicazione. L’opera di Sciascia stava fisiologicamente diventando un tutt’uno, dalle origini alla fine, come se non ci fosse un percorso. Ho cercato di porre rimedio e di individuare le cure, con la mia lente d’ingrandimento».
Col secondo tomo (Saggi letterari, storici e civili) del secondo volume, arrivato nelle librerie, si conclude il progetto delle Opere di Sciascia. I lettori quali scritti rari troveranno?
«Sono saggi che Sciascia aveva pubblicato in vita, apparentemente non c’è nessuna novità testuale, però alcuni stati rimessi a nuovo, riverniciati, parola per parola, tutte le parole hanno un peso. Sono stati ricontrollati minuziosamente sui manoscritti e rimessi a posto, penso a testi importantissimi, per esempio A futura memoria, pubblicato subito dopo la morte. La prima edizione non era ineccepibile, un po’ per fretta e un po’ perché Sciascia stava molto male. Un recupero importante è il suo primo saggio del 1953, Pirandello e il pirandellismo. Sciascia sosteneva di vergognarsi per tutta la sua produzione precedente a Le parrocchie di Regalpetra (1955, ndr), tranne che per quel saggio con le lettere inedite del premio Nobel al critico Adriano Tilgher. Saggio che non era stato più ripubblicato fino al recupero di Ambroise, che lo propose in appendice, ma senza le lettere, molto interessanti, per le quali Sciascia considerava significativo il saggio. È stato, il mio, un lavoro complementare a quello di Claudio Giunta che su Todo Modo, la rivista di studi sciasciani, ha pubblicato il carteggio fra Sciascia e l’esecutrice testamentaria di Tilgher. Altro recupero importante è quello delle note a piè di pagina, molto lunghe, di Cruciverba, a cui davano proprio il senso, perché bisognava leggere in orizzontale e verticale, note comprese. Abolendole, Sciascia si era fatto un torto, sono state recuperate, non nel saggio, ma nella nota al testo».
Le Opere che ha curato, comunque, non sono esaustive rispetto a tutto ciò che Sciascia ha scritto…
«Tra le prospettive degli studi sciasciani, non necessariamente miei personali, c’è l’amplissimo epistolario di Sciascia, lettere di assoluta importanza. Ha donato quelle ricevute alla Fondazione che porta il suo nome, a Racalmuto. Il problema è trovare tutte quelle scritte da Sciascia. Ci sono progetti singoli, come il carteggio fra Sciascia e Consolo, edito di recente da Archinto, o l’epistolario con Mario Frusco, il suo traduttore in francese, proposto dalla rivista Todo Modo. E altri progetti ci saranno. Altra cosa, per quanto mi riguarda, è la dimensione degli scritti dispersi. In tal senso la pubblicazione dei saggi di Fine del carabiniere a cavallo poteva essere la fine, ma con la successiva uscita di quelli de Il metodo di Maigret, è stato l’inizio. Nel senso che è stato dimostrato che era possibile trovare dei chiari nuclei tematici. È cambiata la prospettiva, anche se i contorni del lavoro non sono davvero definibili».
Nell’estate appena trascorsa i maturandi d’Italia hanno avuto la possibilità di confrontarsi con un brano tratto da «Il giorno della civetta». Ai più giovani da quale titolo consiglia di iniziare per leggere Sciascia?
«Sui manuali scolatici Il giorno della civetta, che è il suo romanzo più venduto, è il testo più presente e antologizzato. È stata la scelta più scontata, ma è il suo libro più importante, non il più bello o il più significativo, quello che l’ha lanciato come scrittore a livello internazionale, pagine in cui ci sono indicazioni operative per combattere davvero la mafia. Lo consiglio anche io, da leggere o rileggere. E magari proseguire con altri libri di quel periodo, con A ciascuno il suo, che è più bello come romanzo e dal punto di vista letterario, un libro complesso, per lettori raffinati. O più avanti, con Il consiglio d’Egitto, straordinario, apparentemente diverso da Il giorno della civetta, ma con la stessa continuità ideale. Erano libri scritti con l’intenzione di fare una buona azione, non un’azione moralistica, l’obiettivo era scrivere un libro giusto e utile, incidere sulla società, per cambiare le cose con i libri. All’epoca era possibile e credo Sciascia ci sia anche riuscito. Sono libri da apprezzare per questa dimensione ottimistica, niente male per uno che passava per essere ampiamente pessimista. Ai lettori più esperti, quelli per cui contano di più le strutture letterarie, la costruzione della frase e la bellezza dello stile, più dell’articolazione della trama e di meccanismi ben congegnati, consiglio un capolavoro assoluto come Il cavaliere e la morte. Se non si è lettori attrezzati, si rischia di fraintenderlo. E, comunque, il testo di Sciascia proposto all’ultima maturità era tratto da un ebook e conteneva un errore. Lo dico per deformazione professionale da filologo. Il mio intervento serve a scongiurare questi problemi, non si troveranno i vecchi errori. Magari di nuovi e li avrò commessi io…».