Da attore è cresciuto alla scuola di Camilleri, di cui è stato amico per più di quarant’anni. Luca Di Fulvio, campione di vendite in Germania, è autore di romanzi avvincenti come il più recente, “La figlia della libertà”, ambientato in gran parte nella Buenos Aires del 1912, tra emigrazione e prostituzione forzata: “Gli emigrati, molti italiani, erano carne da macello. Non è cambiato molto. Camilleri mi diceva di guardare il mondo con gli occhi miei e di non farmi fottere dal pensiero comune”
Un “discepolo” di Andrea Camilleri, superstar in Germania, apprezzatissimo in Italia. Scrittore d’altri tempi nel senso più nobile del termine: più che avvalersi degli ultimi postmoderni “ritrovati” della letteratura contemporanea, il romano Luca Di Fulvio, classe 1957, scrive romanzi rutilanti e avvincenti che guardano a certi classici immortali. Nel suo pantheon ci sono, per sua stessa ammissione, «Jack London e Victor Hugo. E poi, siccome sono vintage, da bambino la sera avevo la fortuna di ascoltare le storie di mia nonna che mi lasciavano letteralmente a bocca aperta. È questo modo di raccontare che mi interessa». L’ultimo romanzo di Luca Di Fulvio, La figlia della libertà (636 pagine, 19,50 euro), è stato pubblicato da Rizzoli, a qualche mese di distanza dall’edizione tedesca. La storia che racconta intreccia tre vite – che vogliono ribellarsi a destini che sembrano scritti – nella Buenos Aires del 1912.
Di Fulvio, oltre ai racconti della nonna, un’altra fortuna è avere incrociato Andrea Camilleri. Lei era un giovane attore, lui il maestro all’Accademia nazionale d’arte drammatica. Come è nata la vostra amicizia?
«Lui non era ancora mister Montalbano, io un aspirante attore. Trascorrevo ore a chiacchierare con lui. Mi ha mostrato mondi fantastici, mi ha fatto comprendere cose che io leggevo senza capire, per esempio Pirandello. Sono suo amico da quarantadue anni, faccio fatica a parlarne al passato. Mi diceva che gli scrittori sono anelli di una catena e che non ci si può permettere il lusso di scrivere se non si capisce a quale catena s’appartiene. Quando accade, allora si comincia a essere un anello. Una bella lezione».
Una delle tante?
«Gli bastava aprire bocca per insegnare qualcosa, per dare una lezione, ma mai in modo saccente. In oltre quarant’anni non ci siamo mai persi di vista, ci vedevamo costantemente, andavo a trovarlo, ridevamo e scherzavamo. Mi ha insegnato ad aprire la mente, mi diceva di guardare il mondo con gli occhi miei e di non farmi fottere dal pensiero comune. Un grande italiano, Camilleri. Lui sapevo che amavo moltissimo i suoi romanzi storici, più dei gialli. E probabilmente piacevano di più anche a lui».
Facile immaginare che le tracce siciliane del suo ultimo romanzo e i due personaggi isolani siano un omaggio al suo maestro…
«Naturalmente. E il personaggio di Rosetta si chiama così per la moglie di Andrea, la colonna portante di quella famiglia. Lei sta leggendo il mio romanzo, Andrea non aveva fatto in tempo. Con la Sicilia ho una certa consuetudine, naturalmente con la zona di Porto Empedocle, e poi ho una passione per Noto, Marzamemi, Vendicari. Da giovane ho trascorso tantissimo tempo a Palermo, per via di un mio amico d’Accademia, Salvatore Tessitore, che poi lavorò al teatro Biondo. Ho bellissimi ricordi, anche gastronomici, tra pane e panelle e polpo mangiato a Mondello».
Ambienta romanzi nel passato, ma parlando quasi sempre del presente. Anche in questo sembra vicino al modus operandi di Camilleri…
«Mi capita di leggere romanzi storici che nulla attinenza hanno con l’attualità, e mi annoiano mortalmente. Mi documento tanto e non mi accontento, perché i miei romanzi devono piacere prima di tutto a me. Quest’ultimo l’ho scritto tre volte. È uscito in Germania sei mesi prima che in Italia, con una tiratura iniziale di trecentomila copie. Sta andando bene anche in Francia, dove è nelle librerie da settembre, lì mi hanno adottato».
Ne La figlia della libertà racconta tre storie di emigrazione, due delle quali hanno origine in Sicilia…
«Mi piaceva partire dalla Sicilia anche se avrò commesso qualche errore, calcando la mano su certi termini, ma forse non potevo fare di più, non conosco bene il dialetto».
Tornano la sua proverbiale affabulazione e un tema, come quello dell’emigrazione, che aveva già affrontato e diventa sempre più attuale…
«Questo è il più tosto dei miei romanzi. Scrivevo già di emigrazione ne La gang dei sogni, romanzo che ha venduto un milione e mezzo di copie in Germania. In quel caso la terra promessa era New York, nell’ultimo romanzo Buenos Aires, quando gli italiani erano la metà dei due milioni di abitanti. E poi scrivo di prostituzione forzata, di questa falsa società filantropica che prometteva a poverissime ragazzine dell’Est Europa, spesso ebree, di fare le servette in Argentina, prima di avviarle alla prostituzione. Erano carne da macello. Da allora non sembra essere cambiato molto, oltre un secolo sembra essere passato invano».
A costa sta lavorando?
«A una storia attraverso cui vorrei parlare di quest’Italia e di quest’Europa che non si riescono a fare nemmeno oggi. È ambientata nel 1870, ai tempi della presa di Roma e della breccia di Porta Pia».