Burns e il potere che giudica, minaccia e isola

“Milkman” di Anna Burns, che si è aggiudicata il Man Booker Prize 2018 ma è stata anche stroncata da voci autorevoli, vive del monologo interiore di una diciottenne nell’Irlanda del nord di mezzo secolo fa. Nella sua vita irrompe un lattaio quarantunenne, esponente dei paramilitari… Un romanzo notevole che affronta il tema del terrorismo rivoluzionando in maniera realmente significativa la prosa tradizionale

Voci di corridoio, fatti e pareri personali: cronaca del background di un consiglio di lettura.
Chi consiglia i libri a chi consiglia i libri? Banale ma legittima curiosità. Ciascuno ha le sue fonti e i suoi metodi. Nel caso della narrativa estera, molto utile è segnarsi i titoli vincitori dei più prestigiosi premi letterari internazionali, tenere l’orecchio teso a ciò che se ne dice sulle più autorevoli riviste straniere di settore o sulle pagine culturali dei colossi dell’informazione mondiale, e attendere che siano pubblicati in italiano. Una sequenza lineare. Premio, acclamazione della critica: da leggere. Cosa accade se un cortocircuito interferisce con il metodo, ovvero una parte della critica stronca ferocemente il premiato? Allora si fa affidamento sul proprio istinto e perché no, sulle credenziali della casa editrice.

Pareri contrastanti

Il caso è questo.
Milkman di Anna Burns si aggiudica il Man Booker Prize 2018.
Mr. Appiah, membro della commissione, in conferenza stampa, motiva la decisione nel modo seguente: «Abbiamo scelto il libro che merita di più il premio. È una voce estremamente interessante, è spiritosa e il modo in cui senti la sua voce nella tua testa, penso che non si sia mai sentita una voce simile prima».
James Marriott, il critico che ha recensito il romanzo sul The Times Uk, ponendo l’accento sull’eccessiva difficoltà della scrittura, nell’imminenza dell’annuncio, via Twitter aveva bollato l’investitura addirittura come un furto ai danni di Sally Rooney, altra candidata. Non meno provocatorio Dwight Garner, suo collega del New York Times: non solo scrive di averlo trovato interminabile, aggiunge che non lo consiglia alle persone a cui tiene poiché «il libro richiede troppo impegno a fronte di un risultato modesto».
Ho letto tutti i libri vincitori del Man Booker Prizer degli ultimi anni. Ho apprezzato tanto – per stare sui più recenti – Lincoln nel Bardo (2017) di Saunders, uscito in Italia per Feltrinelli tradotto da Cristiana Mennella, quanto Lo schiavista di Beatty (2016) pubblicato da Fazi, traduttrice Silvia Castoldi.
Difficile che i giudizi sfavorevoli, per quanto di peso, mi avrebbero dissuaso, quest’anno, dal tastare con mano le qualità di Milkman (456 pagine, 19,50 euro). Anzi, elevatasi la mia curiosità all’ennesimo grado, vero il contrario, considerando per di più la fiducia che nutro per le scelte di Keller, l’editore che lo ha pubblicato in Italia avvalendosi della traduzione di Elvira Grassi.
Anna Burns è nata a Belfast nel 1982 ma vive attualmente nel sud dell’Inghilterra. Due romanzi all’attivo prima di quest’ultimo, che è frutto di una gestazione lunga quattro anni, dovuta ad una dolorosa patologia alla schiena di cui l’autrice soffre, rendendole faticoso rimanere seduta a lungo. Il premio in denaro di 64.000 dollari incluso nel Man Booker Prize, oltre ad estinguere i debiti contratti con chi le ha permesso di dedicarsi alla scrittura (comprese le banche), saranno destinati a un intervento chirurgico che lei spera – e noi le auguriamo – risolutivo.

Il Nord Irlanda e il conflitto religioso

Milkman, benché la località non sia menzionata esplicitamente, è ambientato a Belfast, durante gli anni più sanguinosi del conflitto tra cattolici e protestanti. La protagonista,“sorella di mezzo”, è una diciottenne che ha fatto della lettura e della corsa una bolla in cui rifugiarsi. Un’oasi contro il fanatismo politico che trasforma il quotidiano in prassi di militanza acritica. Il libro, nel quale tiene il naso perennemente ficcato durante i suoi percorsi giornalieri, è lo scudo dietro il quale si trincera per difendersi da una tradizione che impone di polarizzare ogni aspetto della vita, dal privato al sociale, in una perenne militanza a favore o contro una parte.
«Mi premeva scrivere soprattutto e essenzialmente su come è usato il potere, sia nella sfera personale che nell’ambito sociale», ha dichiarato Burns in una intervista.
Milkman, il lattaio, l’uomo di quarantun anni, sposato, alto esponente dei gruppi paramilitari, che si materializza un giorno accanto a “sorella di mezzo” mentre corre, imponendole la sua presenza, obbligandola a subire le sue attenzioni, è la personificazione di un’altra delle possibili sfumature dell’esercizio del potere. Schiacciata dalla cultura, dalla tradizione, dalla ideologia, dalle maldicenze che si appropriano della faccenda degli approcci di Milkman per dilatarli in una diceria infamante, “sorella di mezzo” è ben presto emarginata e bullizzata, tanto da risentirne con attacchi di panico invalidanti. Il potere, da chiunque sia esercitato – madre, sorelle, cognati, malelingue, quasi fidanzati, molestatori, terroristi – qualunque sia il fine a cui tenda, giudica, minaccia, isola.

Belfast negli anni Settanta

Dwight Garner, nella stroncatura firmata sul The New York Times liquida il romanzo sostenendo che, se fosse stato un opera di Edna O’Brien, l’azione sarebbe calzata in un racconto di appena venti pagine.
Con la mia mediocre capacità di sintesi sono riuscita persino a restringere ulteriormente la trama.
Piegata dalla necessità di rimanere entro un numero accettabile di battute, infatti, ho dovuto fare delle scelte e tacere, con sommo rammarico, i numerosi episodi che rendono il libro ricco e che avrei voluto invece raccontarvi. Mi riferisco alle pagine sulle molestie sessuali, quelle sulla depressione, quelle sulle dinamiche perverse del terrorismo, quelle di vita familiare, che complessivamente costituiscono una testimonianza fotografica di Belfast negli anni Settanta.
«Burns, come scrittrice, ha un tic, che una volta notato – scrive ancora Garner passando allo stile – “ti fa diventare matto. Le piacciono le serie di tre, il numero magico, quando snocciola nomi, verbi, avverbi». Per fortuna, in tema di letture, la regola aurea resta sempre il gusto personale.

L’innovazione linguistica e il flusso di coscienza

Milkman è, per me, uno dei romanzi più innovativi in termini linguistici che mi siano capitati sotto mano negli ultimi tempi. Dopo Patria di Aramburu, infatti, e quello che ha affrontato il tema del terrorismo rivoluzionando in maniera realmente significativa la prosa tradizionale. Non solo avendola resa più viva e dinamica, alleggerendola dei nomi. Lo ha fatto articolando nell’unico ritmo possibile perché risultasse efficace e genuino, il flusso di coscienza con cui è narrato. Un monologo interiore aderente al vero non può essere pulito, asettico, chirurgico. Il soliloquio della mente è affastellamento, ripetizione, ridondanza di pensieri che si ampliano ed espandono in molteplici possibilità. Esattamente ciò che fa la scrittura di Burns.
La cifra narrativa di questo romanzo, seppure si traducesse in difficoltà per il lettore, a causa dell’impercettibile incrinazione nella scorrevolezza che si potrebbe imputarle, dona senza ombra di dubbio alla storia, anzi le è necessaria. Lo sfondo storico, la depressione mentale, l’occhio sulla realtà di una diciottenne che cerca continuamente angoli prospettici nuovi, cosa sarebbero senza il fiume di parole di “sorella di mezzo”?
Se non odiassi l’espressione “tanta roba”, scriverei che Milkman è tanta roba.

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