Il più recente titolo del romanziere spagnolo José Ovejero è “La seduzione”, un nuovo thriller dell’anima, protagonisti un autore affermato e un aspirante scrittore: «È un’opera sull’immaginazione, non autobiografica. C’è spazio per violenza e paura, come nelle nostre società. Il mondo degli scrittori? A volte mi sembra un po’ ridicolo…»
È uno dei nomi più noti della letteratura spagnola contemporanea, José Ovejero, e ha compiuto un mini tour italiano, toccando Napoli, Roma e Palermo, per presentare il suo più recente romanzo, La seduzione (219 pagine, 18 euro), tradotto da Bruno Arpaia per la casa editrice Voland che ha quasi tutti i suoi titoli in catalogo, libri speciali, radiografie dell’animo umano. Con La seduzione l’autore iberico prosegue in qualche modo il discorso intrapreso con il libro precedente, L’invenzione dell’amore (qui l’intervista che abbiamo realizzato con l’autore dopo quel romanzo): stesse atmosfere, stessa andamento da thriller dell’anima. Nel romanzo più recente da una parte c’è Ariel, scrittore di fama ma in declino, cinico ed esuberante, dall’altra David, timido giovane aspirante scrittore, che coinvolgerà il più anziano coinvolgendolo in una spirale di violenza, per vendicare un pestaggio che l’ha ridotto in coma. Un gioco delle parti, con le parti che si invertono (c’è qualche consonanza nel plot e nelle dinamiche col recente La revisione di Christian Pastore e Federico Leva, per Mondadori). Dialogare con Ovejero, che parla un italiano comprensibilissimo, chiarisce più di qualcosa.
Ovejero, da L’invenzione dell’amore a La seduzione, la sua ricerca letteraria continua su alcuni punti fermi e una certa continuità. È così?
«Tra queste due mie opere c’è contiguità. Sono storie diverse, ma entrambe sull’immaginazione. Ne L’invenzione dell’amore l’immaginazione serve per avere la capacità d’innamorarsi, nell’ultimo ha a che fare con l’altro, con l’immagine dell’altro e soprattutto con la violenza».
Quanto si è divertito a costruire i due personaggi principali, Ariel e David, che inizialmente sembrano essere quel che non sono, mostrano aspetti del loro carattere che vengono meno?
«All’inizio sembra tutto molto chiaro. C’è un forte, Ariel, e c’è un debole, David. Pian piano chi legge scopre che le cose non stanno così e la storia non è quella che poteva sembrare, penso che sorprenda, anche i lettori più scafati. Ariel sembra forte, estroverso, sicuro di sé, è un po’ più giovane di me, ma non volevo che sembrassi io. Ha una voce diversa dalla mia, non è un personaggio autobiografico, non è il mio modo di intendere la letteratura. Prima ho lavorato su di lui, sulla sua caratterizzazione. Poi su quella di David. E su come entrambe cambiano nel corso del romanzo».
Nel suo più recente romanzo, probabilmente, c’è più di una seduzione, compresa quella nei confronti dei lettori…
«E, in effetti, forse, sarebbe meglio parlare di seduzioni, al plurale. David cerca di spingere Ariel verso qualcosa che non sa. In genere la seduzione può essere un gioco divertente, qualcosa di costruttivo e positivo. Poi c’è anche il caso della seduzione negativa, in cui c’è chi non sa di essere sedotto, ad esempio è il caso di Ariel».
Emerge una seduzione ulteriore, quella della vanagloria ai danni degli scrittori, una critica nemmeno troppo velata al mondo di cui anche lei fa parte, non è tenero con la categoria…
«Ariel è sedotto dall’idea d’essere uno scrittore famoso che vuole ancora realizzare un buon libro. Quanto al mondo degli scrittori, a volte lo trovo un po’ ridicolo. Ogni persona vista da vicino è un po’ ridicola, magari se si guarda ancora più da vicino è seria e drammatica. Questo romanzo guarda gli scrittori dalla distanza in cui sembrano un po’ ridicoli».
A pagina 172 dell’edizione italiana de La seduzione si può leggere: «Ero arrivato a un’età in cui scrivere è difficile perché la tua vita è stata sostituita dalla scrittura. Scrivere con il sangue, voglio dire, scrivere davvero, smetterla con i giochetti da primo della classe, far esplodere le pagine di passione e di rabbia. […] La vita non vale la pena se non può essere raccontata». Questi pensieri di Ariel su vita e letteratura quanto aderiscono ai suoi?
«Ho cercato di non essere Ariel, come dicevo, di sicuro sono meno selvaggio e meno cinico rispetto a lui. Sono d’accordo con alcuni dei suoi pensieri, ma nel caso specifico non direi che vita non vale la pena d’essere vissuta se non può essere raccontata. Di sicuro raccontarla è una parte importante, probabilmente la sola maniera di capirla. Per quanto mi riguarda non capisco molte cose, fin quando non le scrivo. Raccontare la vita è importante per impararla e capirla».
Ne La seduzione c’è parecchia violenza, anche se non sempre è chiara la sua origine…
«È così. Penso che non ci sia società senza violenza. Nel mio romanzo spesso non si sa perché accade, forse non lo sa David, non lo sa assolutamente Ariel. Noi stessi spesso non capiamo come certe cose o azioni diventino violente, affiora anche la paura, dinanzi alla quale si può fuggire o attaccare. In Spagna, e mi sembra di poter dire anche in Italia, c’è una società impaurita, in cui si immagina l’altro come una minaccia, è incredibile ma c’è un sentire diffuso che vede nei migranti un elemento di distruzione della nostra civiltà».
La Spagna è sotto i riflettori dell’opinione pubblica mondiale per la questione catalana, specie dopo le condanne dei leader dell’indipendentismo e la guerriglia che ha messo a ferro e fuoco Barcellona. Forse la situazione è più complessa?
«Da pene molto severe e dala condanna di un’ideologia ha avuto origine altro. A Barcellona, fra la gente che è andata in strada non c’erano solo indipendentisti, è scoppiata una rabbia latente, che era lì senza che nessuno se ne rendesse conto, c’erano tanti giovani, molti disoccupati, oppure occupati malpagati o con un impiego precario. In Catalogna c’è una generale mancanza di speranza che mi colpisce molto e che è esplosa in rabbia. Non è un caso isolato, potrebbe accendersi altrove, se già non l’ha fatto, penso alle turbolenze di varia natura che ci sono in Iran, in Turchia, in Cile, in Ecuador, in Bolivia. Ho la sensazione che sia una situazione generale, globale, di mancanza di speranza…».
In patria si confronta con una letteratura viva e di qualità, con giganti come Javier Marías, Javier Cercas, Clara Usón, Eduardo Mendoza, Antonio Muñoz Molina. Quanto è interessante, al giorno d’oggi fare lo scrittore in Spagna?
«Molto. È vero, ci sono grandissimi nomi e il livello è molto alto. Quando ho iniziato avevo la sensazione di imparare solo guardando all’estero, ora quando leggo i miei connazionali, più anziani, coetanei e anche più giovani, ad esempio Marta Sanz, Edurne Portela, Sara Mesa, Isaac Rosa, Luisgé Martin, Aroa Moreno».