“Settembre 1972” è l’opera più famosa dell’ungherese Imre Oravecz: in una novantina di “fotografie” l’evolversi di una storia d’amore, la battaglia psicologica di non accettare la fine, tra sprazzi brutali e poetici
Che storia eterna e universale ha scritto l’ungherese Imre Oravecz! Due destini come tanti di quelli che ci piombano addosso, vediamo in giro, interpretiamo o abbiamo interpretato. Vita, morte e miracoli di un amore, si potrebbe dire. Prima un dolore atroce, quello della fine del matrimonio, poi una graduale accettazione. Il risultato, pubblicato dalle edizioni Anfora, è Settembre 1972 (132 pagine, 15,50 euro), nella bella traduzione di Vera Gheno: l’originale risale al 1988. Un libro che in terra magiara è stato accompagnato da totale entusiasmo. A ragione.
Un poemetto narrativo
Toccano il cielo e toccano il fondo i protagonisti di questo romanzo di Oravecz che sarebbe forse meglio definire un poemetto narrativo. Dalla passione alle nozze, dalla meraviglia di diventare genitori ai tradimenti e all’epilogo della separazione, prima inammissibile e sofferta, poi conclamata e incassata.
«… cosicché tu sei ormai per me tutte le donne che sono state, e tutte le donne mi lasceranno definitivamente se tu mi lasci»
«… ti dimenticai completamente, e diventasti del tutto astratta, insensata, come una parola in disuso che ancora ripeto ma ormai non so cosa significhi»
«… e c’è da temere che ne rimanga sopraffatto, e allora davvero sarò tale e quale mio vedi, allora sarò come te»
Sprazzi brutali e lirici, concreti e sognanti si susseguono, quelli dei grandi amori impossibili e perduti. Brevi paragrafi lunghi mezza paginetta, una o poco più, in cui il punto arriva solo alla fine. La cronologia non è lineare. La malinconia totale, un filo rosso, una patina che non va via nemmeno nei momenti belli. Un io che narra e che si rivolge a un tu (ma è davvero sempre lo stesso?), un caos di ricordi, sentimenti che accecano e che abbattono, infine.
Dalla felicità al rancore
Il lungo addio dalla felicità al rancore è un percorso di enorme difficoltà, un limbo di apatia da cui non è facile riemergere, è una sfida lunga di pensieri fissi (dove sarà? ci incontreremo? con chi sta? ci sono speranze di riconciliazione? arriverà una telefonata? una lettera?) come fosse un percorso di disintossicazione da una dipendenza, una battaglia psicologica giornaliera, narrata a cuore nuda, senza maschere di forza, ma con estrema debolezza e lucidità, con punte di depressione, di delirio, da anima in pena. Anche quando inizia a frequentare altre donne, s’afferma come scrittore, deve occuparsi del figlio frutto di quel grande amore.
Fuoco che non vuol spegnersi
Il libro, intimo e commovente, consta di una novantina di fotografie, annotazioni di una sofferenza in cui non è difficile riconoscersi. Sono moti dell’animo così condivisibili che il rischio di bagnarsi di cliché è concreto, anche se Oravecz apre un ombrello ampio. Senza banalizzare tutto, senza passaggi a vuoto: il lettore potrà godersi un volumetto compiuto, emozionante, fatto, come la vita vera, di speranze e umiliazioni, di rabbia e di fuoco che non vuol spegnersi, quando l’amore finisce.
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