Un famoso scrittore, discendente di Vincenzo Bellini, un’opera che lo porta al successo, un racconto nel racconto, un Tempio abbandonato e spento. Come il teatro Massimo Bellini di Catania…
Bellini è il cognome di questo scrittore catanese, classe 2001, discendente ormai alla lontana del ben più celebre antenato Vincenzo.
Massimo invece è il suo nome. Un nome che gli è stato messo da piccolo, quasi profeticamente diremmo, così, forse per gioco, forse per amore.
Fatto sta che Massimo, in questo suo nome, ha riconosciuto una vocazione alla gratitudine e ne ha certamente fatto un programma di vita, una disciplina alla cronaca poetica.
È il 2026 quando, a soli venticinque anni, scrive l’opera che lo porta al successo. Una cronaca romanzata che ha il sapore di antiche suggestioni; una biografia “collettiva” cui mancano solo le note e alla quale dà nome: Via Perrotta. Melodramma di una memoria.
Il titolo non deve trarci in inganno. Non si tratta di uno scritto su Giuseppe Perrotta, anche lui compositore catanese di metà Ottocento. Bellini sceglie questo nome perché è soprattutto il nome di una via della sua città. Di una “trazzera” che però, dice lui con passione transitiva, si è fatta passeggiare dalla storia.
La via in questione, Via Perrotta appunto, è la stradina dalla quale si accedeva al Teatro Massimo Bellini, di cui il nostro Autore si è trovato a essere omonimo. Ma l’accesso di Via Perrotta, attenzione, non era aperto al pubblico. Lì si trovava infatti l’entrata per gli addetti ai lavori, l’entrata “degli artisti”, come veniva chiamata.
E così mentre Piazza Teatro si affollava, di eleganti carrozze in un tempo lontano e di code umane fino a qualche tempo fa, schiudendo ai catanesi l’entrata luminosa e barocca del Teatro, Via Perrotta rimaneva invece discretamente di lato, quasi ascosa all’ombra di un arco che era un varco a tutti gli effetti, e oltre il quale la folla c’era sempre, ma meno rumorosa è più invisibile; senza pellicce e gioielli, ma con qualcosa che non si mostrava, che non appariva in modo clamoroso; perché la folla di Via Perrotta, la folla degli artisti, era diversa da quella di Piazza Teatro e i suoi gioielli erano altri. Erano mani e voci, che non si palesavano finché non fosse giunta l’ora.
Bellini (lo scrittore) crea tutto un insieme di suggestioni dedicate a questo ingresso; e sono molte le pagine in cui ci descrive l’arrivo e l’entrata dei macchinisti, dei maestri di palcoscenico, dei professori d’orchestra e dei cantanti, e di ogni altra maestranza, nelle quali se ne sottolineano le peculiarità, i tratti caratteristici delle rispettive categorie, gli elementi distintivi di ciascuno e quelli che invece li accomunavano. Ed uno risalta su tutti: ognuno di essi faceva qualcosa di diverso dagli altri, ma senza l’insieme di tutti loro l’opera non poteva cominciare!
E così, attraverso una trovata testuale che diventa immagine e conseguenza delle suddette descrizioni, ad un certo punto avviene che, entrati tutti gli artisti, finisce per entrar dentro anche il lettore, proprio da lì, proprio da Via Perrotta, quasi invitato a questa specie di visita guidata che, se da un lato sembra attraversare quelli che furono i luoghi del Teatro, dall’altro vuole invece ripercorrerne i tempi gloriosi.
Ed è proprio a questo punto che l’Autore passa dal titolo al sottotitolo del suo libro: Melodramma di una memoria. Un’espressione tragica proprio perché chi legge il libro sa che il Teatro è ormai chiuso da anni, e che le descrizioni fino a poco prima proposte rimangono ormai solo frammenti di passato. E quindi cosa potrà mai succedere a chi legge, dopo aver varcato quella soglia? È possibile che l’Autore riservi a questo punto uno spartito tutto fatto di ricordi e di dolorosi ritorni?
La risposta la si incontra un po’ per volta, sfogliando un libro che smette di essere una cronaca e diventa quasi un singhiozzo, ma in continuità con quella musica struggente che ciascuno riesce ormai a sentire. Le emozioni che da questo momento in poi vengono fuori dalle pagine di Bellini sono singulti soffocati dal giudizio di archi violenti, come il pianto di Rodolfo o di Canio. Lacrime che stemperano il trucco, che sembrano contraddire la meraviglia di quella musica ma in realtà ne sostengono l’eterna bellezza.
L’Autore smette d’essere cronista e comincia a chiedere, a far parlare altre voci, e lo fa attraverso le esperienze e le memorie rubate qua e là dai polmoni di chi, in quel luogo, c’ha lavorato per tutta la sua vita. Massimo Bellini, che a questo punto della narrazione arriva ad identificarsi totalmente col Teatro di cui porta il nome, smette di essere se stesso e decide di trasfigurarsi. Nell’insieme delle memorie raccolte, diventa egli stesso voce di quel Teatro che altrimenti non potrebbe parlare, se non attraverso di lui e di chi lo racconta. Usa il suo nome, l’Autore, perché un altro nome possa essere ricordato! E lo fa quando, rivolgendosi a tutti coloro che lavoravano lì prima della chiusura, pronuncia quelle terribili parole che davvero sembrano il climax di una romanza: Raccontate, o artisti! Raccontate di lui! Raccontatemi, o figli! Raccontate di me!
Adesso è il Teatro che parla. Adesso comincia il melodramma della memoria.
Trentaquattro capitoletti che sono come piccoli atti d’opera. Ma in ognuno una storia diversa, anche se il filo conduttore è sempre lo stesso, come lo stesso è il sipario. C’è per esempio la storia narrata dal primo violino, dignitosa fino alla fine, come un assolo. C’è quella del direttore di palcoscenico, che sembra un grido pieno di rabbia, ma si risolve poi in uno sconsolato rimpianto, in una commozione che nessuno avrebbe immaginato così innocente sul volto burbero di quell’uomo. C’è anche quella dell’aiuto regista, che tra parolacce e ricordi tratteggia aneddoti divertenti ma dal sapore ormai tragicomico. E c’è quella di Orazio, il barista, che non riesce a parlare; ma dai cui occhi emergono lacrime eloquenti, capaci di raccontarci più di ciò che ciascuno definirebbe essenziale. L’amore è essenziale, come il pane. La memoria invece non riesce mai ad esserlo, perché si nutre di piccoli particolari. La memoria è come il vino: non vorresti mai smettere.
È questa la parte più bella del libro. Quella che davvero ti fa smettere i panni del lettore (o dello spettatore) e ti regala la consapevolezza del “dietro le quinte”. Questa è la parte del libro in cui il Teatro Massimo Bellini, attraverso le testimonianze raccolte e redatte dal suo omonimo Autore, ci fa sentire non più l’acustica migliore, ma la più commovente. Sono riverberi di coscienze; echi di storie che appartengono al passato, quando questo per qualcuno poteva ancora essere il futuro. Quando qualcuno avrebbe potuto far sì che lo fosse!
Noi ne abbiamo scelta una. Una testimonianza tra tutte, l’unica scritta da un non addetto ai lavori, ma che in quel Teatro c’è cresciuto lo stesso. E la riproponiamo così come l’Autore l’ha trovata, chissà poi dove.
Non lavorai mai a Teatro, se non come comparsa, ogni tanto. Ma si può dire che vi passai gli anni più belli della mia vita. Gli anni della mia infanzia e della mia giovinezza. Gli anni che “fanno” tutto il tempo che viene dopo. Ci lavorava mio padre, che cantava nel coro, e mi portava spesso con sé. Lo aspettavo là sotto, nel cortile degli artisti, sentendo forte la musica che arrivava dalla sala prove e attendendo che lui terminasse. Nel frattempo non so ben dire se, a quell’età, mi annoiassi o meno.
Certamente mi trovavo subito qualcosa da fare: sgattaiolavo nei lunghi e circolari corridoi dai quali si accedeva ai palchetti, tutti rossi di velluto e silenziosi, così diversi da quando, durante uno spettacolo, li vedevi traboccare di gente. Oppure entravo sul retro del palcoscenico, grande come la platea: un universo brulicante di vita, perfettamente speculare a quello degli spettatori. Lì incombevano, mostruose, delle scenografie smisurate, lunghissime assi di legno su cui spiccavano numeri scritti con una vernice rossa: codici segreti di macchinisti barbuti e dal volto perennemente accigliato, ma che mi sorridevano volentieri quando passavo da lì, perché ero il figlio di un collega.
Crescendo, anno dopo anno, non un solo orizzonte di quel luogo fantastico mi fu precluso! Mi spingevo sempre più in là, pioniere di anfratti sempre più irraggiungibili e nascosti! Ero il terrore del portinaio, che quando mi vedeva mi rimproverava ormai in modo preventivo, perché sapeva che ne avrei combinata una o sarei andato ad esplorare zone proibite. Come le catacombe di quel Teatro, che ospitavano enormi cabine elettriche. Vi si accedeva da una scaletta vicina al cortile, il cui transito era rigorosamente riservato ai soli tecnici e ai pompieri. Il che bastava a convincermi di fare un salto nell’ignoto. Ma non riuscii mai a visitarlo completamente: erano troppi i segnali di pericolo, grossi come mostri, che si affacciavano da ogni parete: pericolo di alta tensione, pericolo di folgorazione, pericolo di morte! Ogni volta facevo un paio di scalini in più, per poi ritornare in superficie!
Altre volte ancora salivo sul tetto, o visitavo le piccionaie ormai in disuso. Da lì non si vedeva nulla, ma durante gli spettacoli la musica vi arrivava meglio che in qualunque altra parte! Spelonche da eremiti dell’arte, che sceglievano la cecità a miglior gloria dell’udito.
Ma il posto più bello da visitare, e dov’ero già stato molte volte, rimaneva senz’altro il camerino dei cantanti. Era già il tempo in cui avevo dieci, forse undici anni. E avevo preso gusto a girare per il Teatro non solo quando c’erano le prove e dovevo accompagnare mio padre, ma proprio durante gli spettacoli. Sì, perché provavo una soddisfazione immensa nel sapere che, mentre ad ogni intervallo le persone si rigettavano nel foyer, discutendo dottamente da dietro i loro improvvisati monocoli da intenditori circa l’opera in corso, io avevo invece la possibilità di osservare tutto come da dietro un microscopio! Le folle si gustavano la vita, fatta di musica e di scene, guizzare dalla ribalta del palcoscenico; io invece ne contemplavo l’origine, aggirandomi tra i luoghi in cui questa “vita” veniva formata dal lavoro incessante di tutta quella gente! Era in quei momenti che passeggiavo indifferente sul rosso velluto del primo ordine, per poi aprire una pesante porta di metallo che mi faceva varcare il confine alla volta di un mondo rumoreggiante di martelli e di carrucole, mentre veniva preparata la scena per l’atto successivo.
Sgusciando furtivamente, e cercando di evitare chiunque avesse potuto rimproverarmi, stavo attento soprattutto a non farmi beccare da quell’orco barbuto con la erre francese che in quei momenti, di quel palcoscenico, era il signore incontrastato e assoluto. Ma gli volevo bene perché ogni tanto mi sorrideva anche lui.
Così, a poco a poco, raggiungevo l’ascensore e salivo fino ai camerini dei cantanti. Lì c’era mio padre che si cambiava, si struccava, che toglieva gli abiti di scena come fossero paramenti. Lì c’era il regalo di una felicità che non era mai uguale alle altre, perché oltre alla gioia paterna tutta sua, di vedermi arrivato fin lassù, c’era anche l’innocente soddisfazione di mostrare ai colleghi che suo figlio era andato a trovarlo! E tutti mi salutavano sorridenti! Finivano di dirsi parolacce e di raccontarsi sconci aneddoti perché c’era un bambino, ed io mi sentivo voluto bene da tutti loro, ed ero orgoglioso, in circostanze come quelle, di essere amato da mio papà! Quelli furono i momenti dei quali si può dire: là dentro ci sono cresciuto. Perché quelli sono i momenti che fanno crescere.
E crebbi davvero. E con l’età crebbe anche la capacità di astrazione e la sensibilità ai simboli. Così quel Teatro divenne sempre più un tempio. Ogni volta che vi entravo sentivo che lì c’era… c’era del sacro, sparso qua e là su tutte le pareti: un’invisibile vernice che era come la stratificazione paziente di decenni e decenni di arti e di vite umane che, nel modo più bello, lì si erano susseguite. Sentivo tutto questo! Sentivo di farne parte! E consapevole di esserne solo un indiretto beneficiario, un erede clandestino, passavo per quei luoghi con il senso di qualcosa di grande che, pur non avendo mai meritato in prima persona, mi era stato partecipato ugualmente. Per amore.
Quello fu il luogo in cui, dopo essere cresciuto, scolpii l’imperitura immagine di mio padre che, nel frattempo, subito dopo essere andato in pensione circondato dall’affetto dei colleghi, terminava il suo atto terreno. L’intermezzo tra quell’atto, e quello a venire, è tutt’ora la mia memoria. Ma che dovrò mai farne di questa memoria se, dentro quel luogo, non vi sarà più una musica a trasformarla in memoriale?
Oggi quel Tempio è abbandonato, distrutto, circondato solo dall’aura delle sue vestigia. Vedo anime, ancora, aggirarsi in Via Perrotta. Camminare lente e fluttuanti come fantasmi a cui è stata inflitta una pena peggiore della morte: quella di non poter pienamente vivere; quella di sopravvivere a se stessi!
Ogni tanto, ancora oggi, capita che qualche anziano collega di mio padre si trovi invitato da qualche parte, a qualche festa, dove magari c’è anche un pianoforte. E allora… Cantaci questa romanza, gli chiedono. Pronti a libare coi calici in mano. Ma… come cantare quella musica in terra straniera? Al salice di quel Teatro appendemmo le nostre cetre! E ci si attacchi la lingua al palato se lasciamo cadere il suo ricordo! È lì che ancora va il nostro pensiero!
Anch’io ci passo, ogni tanto.
Ah, che pena quei catenacci sul portone di Via Perrotta. Che pena quelle finestre coi vetri ormai opachi, dalle quali più non si ode arrivare un canto. Ripenso allora alle mie antiche monellerie, a quelle corse, a quei nascondini tra camere e stanze segretissime dove si consumava l’officina dell’arte. Ripenso alla statua del Bellini, nel foyer, che ormai sarà in pezzi come quella dell’ennesimo principe felice.
Ripenso infine a mio padre. A quanto lo piansi. A quanto però mi consolo adesso, sapendo che il suo cuore si fermò prima della chiusura del Teatro Massimo. Una morte anzitempo, ma almeno libera da quell’ultima violenza.
Questa è solo una delle testimonianze raccolte nel libro di questo Autore che, lo capite bene, visse in modo pienamente drammatico la sua omonimia al grande Teatro ormai spento.
Anche lui si spense. Sì. Dopo il successo di quest’opera letteraria cominciò il suo declino fisico. La fama aumentava mentre lui, non si è mai capito a causa di cosa, si lasciava morire. Chiuse gli occhi nove anni dopo la pubblicazione del libro, nel 2035. Chissà… Forse l’autoidentificazione con il Teatro fu così forte che non gli parve giusto continuare a vivere oltre ciò di cui volle essere immagine. Forse, per la prima volta in assoluto, un crepacuore divenne una scelta di solidarietà.
Un libro che merita di essere letto, sfogliato con religiosa attenzione, perché si ha a che fare con le vite degli uomini.
Ma non vi abbiamo detto ancora quale fu la cosa più straordinaria di questo libro. Non vi abbiamo ancora rivelato in cosa consistette l’elemento che lo rese una tra le opere più meravigliose!
Fu proprio il fatto di non essere mai stato scritto!
Esatto. Questo libro su Via Perrotta, questo melodramma di una memoria, è solo l’opera immaginaria di qualcuno che ha voluto fare sostanzialmente una cosa: dipingere una fine, così che sia evitata; al prezzo di qualche lacrima che è meglio scenda ora piuttosto che dopo! Mostrare quanto prezioso sia ciò che abbiamo, prima che qualcuno ce lo porti via. E soprattutto affermare che non è solo il lavoro di circa quattrocento dipendenti che è in pericolo, ma la struttura della loro esistenza, delle loro memorie, dei loro ricordi. E di tutti coloro che, in una maniera o nell’altra, in quel Tempio ci sono entrati, almeno una volta, rimanendovi innamorati per sempre.
E così, non avendo fatto altro che rappresentare un melodramma, ci siamo sforzati di dar voce ad una bellezza che talvolta ha bisogno della finzione per essere compresa. Così affidiamo il nostro Va’ pensiero all’unico luogo che, se solo lo volesse, potrebbe davvero avere un’acustica migliore del nostro Teatro: il cuore degli uomini, quando ricordano di avere una coscienza.