Stefano Di Lauro, autore, regista teatrale, compositore, pubblica per le edizioni Exorma il romanzo “Troppo lontano per andarci e tornare”, incentrato su un microcosmo di artisti circensi che, il 31 dicembre 1899, salpa dalla Francia all’Argentina a bordo di un piroscafo. I protagonisti sono i componenti del piccolo circo “Au Diable Vauvert” (da una locuzione francese che designa luoghi vaghi, lontani: un po’ come “in capo al mondo”). Il racconto di Stefano Di Lauro va anche a ritroso nel tempo, fra avventure e peripezie, riferimenti colti e umorismo: un gioiello, in libreria da giovedì, che siamo felici di presentare in anteprima con la pubblicazione, per gentile concessione dell’editore, di un estratto del capitolo “Il mantice della ventura”. Buona lettura
Verso l’alba Nounours stilò una lunga lettera che spedì di buon mattino. Poi tornò a casa, dormì qualche ora, mangiò un boccone, ripulì il suo viso dalle chiazze di barba, lavò i capelli e andò ad asciugarli al tavolino assolato di un caffè. Aveva già con sé lo strumento. Alle tre meno dieci attraversò il ponte di Trinquetaille. La vista della mongolfiera già parcheggiata nei pressi dell’accampamento lo rinfrancò. Per quanto fosse consapevole che la possibilità di farcela stava unicamente nelle sue mani e nel suo istinto, non se la sentiva di rompere il ghiaccio senza il sostegno del suo mentore.
L’aria di Arles continuava a sfavillare in un modo singolare.
Giunto allo chapiteau, si accorse che la bocca della balena era sbarrata da una pedana di legno. Dal vociare capì che la compagnia era riunita nel retro, all’aperto, sotto l’albero maestro del veliero. Accanto al triciclo col pallone, c’era il carro della sirena col suo rivestimento di scena. Nel corteo notturno, Nounours aveva creduto di vedere un carro rivestito di acqua increspata dalla corrente, ma da vicino, i corrugamenti marini erano tela stropicciata, croste di colla e pennellate color fango acquamarina e glicine.
Visto di giorno, il bivacco del Diable assomigliava a un intrigante arsenale. Fascinoso ma nudo, come una pignatta orfana del coperchio del buio e dei riverberi del focolare. Rammentò quel che aveva detto Prosper in strada per annunciare l’inizio dello spettacolo, “non prima del tramonto, ché la luce dilegua le chimere…”, e per qualche minuto rifletté sull’antica ruggine tra luce e stupore, cosa, del resto, non ignota agli amanti d’ogni tempo. Mentre si accingeva a fare il giro, vide Mardea sbucare un po’ a fatica dall’uscio di un altro carrozzone con un fusto tra le braccia. Come ebbe modo di constatare di lì a breve, i movimenti impacciati non dipendevano dalle dimensioni del barile, ma dalla sproporzione tra un’apertura ordinaria e una statura fuori dall’ordinario.
Tranne i seni, non c’era nulla che debordasse. Carnosa senza mollezze. Aveva un viso intenso, non avvenente, non sgraziato, dannatamente intenso, ornato da tatuaggi tribali. I suoi lineamenti ibridi dicevano di scorrerie di popoli – moltitudine di impronte refrattarie alla rappresentazione. Mardea era irriferibile. Indossava una tunichetta, calzoni alla zuava e stivali da amazzone. Il colore della pelle, tra bruno e rossastro, ricordava una patata dolce appena raccolta, e i suoi veri capelli, crespi corvini e riuniti a coda, le arrivavano ai lombi. Gli occhi neri e lucenti non scongiuravano una patina di malinconia, la stessa già ravvisata nella maschera della sirena.
Lo sfiorò l’idea che quella pelle potesse surrogare un tramonto inoltrato a qualunque ora del giorno, e provò una scossa. I loro sguardi s’incrociarono. Nounours si dimenticò di sorridere.
– Ah, eccoti! Vieni Nounours – e fu lei a sorridergli, senza scoprire i denti.
C’erano panche spicciolate che facevano da sedie e da mensa. E odore di pesce secco, pane abbrustolito, caffè e tabacco. Mardea, che lo aveva preceduto a passo più spedito, stava già sistemando il barilotto su uno sgabello in modo che chiunque potesse servirsi. Nei pochi passi che ancora lo separavano dalla cricca, Nounours, prima ancora che dagli altri, fu attratto dai due fratelli in abiti borghesi. Prosper gli parve un bagnante in procinto di rivestirsi, mentre Orlando un cacciatore con gli occhiali in procinto di spogliarsi.
Gli restò un batter di ciglia per passare in rassegna il resto della compagnia; sorvolò sui visi, afferrando la composizione plastica del gruppo: in piedi, seduto, gambe incrociate, con le braccia, senza braccia. Nel residuo di quel batter di ciglia riuscì perfino a pensare che se Mardea lo aveva chiamato per nome il suo caso era già minuziosamente passato al vaglio del Diable. Mancava la prova del fuoco. Non fece a tempo a spiccicare un saluto, che Mardea gli mise in mano un bicchiere di sidro e Orlando aprì le danze.
– Alla buon’ora, il Diable ti dà il suo benvenuto. Miei cari, ecco Monsieur Benjamin Lunaire, in arte e per gli amici Nounours.
– Buongiorno – la sua voce trapelò una legittima inquietudine.
La compagnia gli rinviò il saluto. Alcuni intelligibili e altri a bocca piena. Dall’antenna dell’albero maestro, proprio sopra il suo capo, anche Chouchou emise un piccolo grido di benvenuto.
– Prego figliolo, non abbiamo orecchie che per la tua musica – gli fece Orlando, indicandogli dove poteva sedersi.
– Non prima che abbia finito di bere, se non vuoi che suoni con una mano – chiosò Prosper, strappando ai suoi un ilare brusìo.
Nounours sorseggiò con calma, e in quella durata ebbe addosso gli occhi del Diable, e il Diable ebbe addosso i suoi: occhiate tese a percepire, domande mute rivolte ai corpi non in quanto corpi, ma in quanto recipienti di umori.
Vestita di niente, occhi cenere, capelli biondoscuro corti e spettinati, Ailes era, se possibile, ancora più bella che in scena. Uno scricciolo dal volto aristocratico e adolescenziale che poteva avere anche il doppio degli anni che dimostrava. Indossava un corpetto smanicato che esibiva senza alcuna cautela l’assenza dei suoi arti superiori. Nounours l’aveva vista esibirsi senza maniche, ma fuori dalla scena quella morfologia spezzata gli parve più inclemente. Su ciascuna estremità delle spalle era tatuato un minuscolo paio di ali.
Lou era altrimenti femminile. Quanto Ailes era diafana, tanto Lou era corporea: incarnato bronzeo, meno che olivastro – l’incarnato dei Méliès – e il resto sui toni del castano. Dal suo sole, tuttavia, trapelava un che di vago, come l’aria tremula d’un meriggio accaldato, come un canto melismatico oscillante intorno alle frazioni di una nota.
L’uomo del fuoco, nonché padre putativo della lupa, si chiamava Iano Delmondo. Alto, virile, folti capelli corvini pettinati all’indietro, basette fino alla base della guancia, e un lungo pizzo di barba che pendeva da sotto il carnoso labbro inferiore. Delmondo aveva origini italiane; e come alcuni latini era piacente, un po’ tenebroso e munito d’un sesso fuori dal normale. L’attillato costume di scena rendeva evidente l’esuberanza del suo pene, cosa che faceva spesso arrossire e mormorare le comari del pubblico.
Célestin era il più anziano della compagnia che aveva contribuito a fondare. Un fascio di nervi su un corpo magro abbrunito e lunghi capelli grigi raccolti in una treccia che scendeva sino alle scapole. Precedentemente, si era esibito come acrobata sia per le grandi compagnie itineranti europee che per i circhi stabili della Ville Lumière. Aveva poco più di trent’anni quando gli esiti d’una brutta lussazione della spalla resero insicuri i suoi volteggi. Per qualche tempo si dedicò alla formazione di nuovi acrobati e a mansioni più tecniche, sino al fatidico incontro coi Méliès. Era un uomo di grande esperienza: preparatore, macchinista, direttore di scena, suonatore di arpa celtica, marionettista, figurante. Insomma, una vecchia stella del circo divenuto senza rimpianti un artigiano della scena, mezzo artista e mezzo travailleur de l’ombre, come i francesi chiamano chi svolge il lavoro più oscuro. Durante lo spettacolo animava le ombre, le marionette, suonava, prendeva parte alle pantomime, e si occupava di un mucchio di faccende tecniche. Sapeva anche lanciare i coltelli, ma col Diable, sino a quel momento, s’era limitato, durante il prologo, a lanciare con precisione millimetrica una torcia fiammeggiante nelle mani di Orlando.
Nounours bevve l’ultimo sorso e cercò lo sguardo del suo mentore, che gli ammiccò benevolo ma non troppo, come per rammentargli che stava per saltare senza rete di protezione e senza diritto di replica. Posò il bicchiere, aprì con calma il fodero, e cavò il bandoneon, che destò l’interesse della compagnia.
– In Slesia ne circolavano parecchi – fece Iano. – Ha un timbro molto originale. Fra i germanici va forte, e comincia a circolare anche nelle Americhe. Con molto successo, si dice.
La competenza musicale di Iano era retaggio del suo passato: maestro di musica e timpanista in diverse orchestre italiane e francesi. – Viene dalla Sassonia, vero?
Nounours fece di sì con la testa. Iano gli fece segno di avvicinarsi. Si limitò a rigirarlo fra le mani, apprezzandone la qualità del legno e le finiture. – Gran bell’arnese – e lo rimise nelle piccole mani del proprietario. – Conosci la musica?
– Così così.
– A volte non vuol dire.
Nounours tornò a sedersi. Posò le dita sui tasti e fece un lungo respiro. Ma invece di iniziare lanciò ai girovaghi uno sguardo perplesso.
– Manca il cassiere della compagnia. Dov’è?
– Eccolo – fece Lou indicando se stessa.
Scoppiò una risata rumorosa. Nounours arrossì al pensiero d’aver incorniciato una solenne sciocchezza, ma finì per unirsi al riso.
– Grandi muse, – esclamò Orlando tirando il fiato – costui ci aveva già censiti.
L’euforia si placò lentamente, e quando fu il silenzio, un attimo prima di attaccare, cercò Mardea, ma la gigantessa aveva già socchiuso gli occhi.
Suonò.
Cominciando dal brano sbozzato il pomeriggio precedente. Suonò senza soluzione di continuità, legando un pezzo all’altro come le maglie d’una catena a coda di volpe, nodo entro nodo: generi e stili appresi nelle periferie parigine, intrugli meticci di tradizione occitana, italiana, gitana; sicché, quando al termine d’una vorticosa danza bretone staccò le mani dalle bottoniere, la fine del concertino fu inequivocabile. Non volava una mosca. Un assordante silenzio, tutt’altro che gelido: il Diable era stregato. Ma lui non ci fece caso: metà della sua coscienza era ancora nella miniera delle note.
Con calma, si sfilò di dosso il bandoneon.
– Potrei averne ancora un po’? – chiese garbatamente, col bicchiere in mano.
Orlando, ancora sbalordito dall’esecuzione, gli indicò la botticella con un gesto succinto, e Nounours andò a servirsi, e aspettò tranquillo il verdetto del parlamento, in pace con la sua coscienza. Né ebbe fretta di ricercare un preannuncio sulle facce del Diable. Prosper aveva un’espressione paga, come se avesse brillantemente risolto un sistema di equazioni a più incognite.
Célestin si espresse per primo. – Senza che, senza forse e senza ma.
– Senza eccezioni e senza riguardi – gli fece eco Lou.
– Il ragazzo ha i numeri – disse Iano fra sé, e poi, all’interessato – Bravo. Davvero.
L’approvazione degli altri si manifestò in un lungo convinto applauso avviato da Mardea. Ailes batté i talloni per terra. Il battimano ruppe la bolla di Nounours. Era fatta, e ne stava prendendo coscienza: dallo scuro al chiaro in una manciata di ore. Non era solo un capovolgimento, era un valico, era il destino. Come aver vissuto i suoi anni, tutti, solo per essere lì, in quel momento, con quella gente: in quell’applauso risuonava l’istante, il domani, ma soprattutto il senso del passato.
Gli vennero gli occhi lucidi. Le mani di Mardea gli parvero sovrastare quelle degli altri. Forse per evidenza di mole, ma forse anche no. Chouchou attese la fine dell’ovazione per lanciarsi dal pennone sul tetto di un carro; e quando fu certa d’avere tutta l’attenzione del ragazzo solo per sé, gli tributò il suo applauso personale.
– È il giorno più grande della mia vita.
– Da che mondo è mondo, le cagne non fanno gatti – interloquì Prosper, intendendo stemperare la commozione di Nounours e la sua.
Orlando si alzò dalla panca con aria contegnosa. – Non per spezzare l’idillio, miei cari, ma prima di far festa è necessario che il nostro compagno sia istruito sulle nostre sacrosante sciocchezze. Sciocchezze, ma sacrosante.
Quelli del Diable annuirono divertiti.
– Vi ascolto. Ogni casa ha le sue regole.
– Bene Nounours. Solo due comandamenti. Primo: vedi quei tiranti in canapa che assicurano lo chapiteau ai carri?
– Sissignore.
– Come li chiameresti?
– Cord…
– In nome del cielo! – lo arrestò Orlando. – Dimentica quella parola. Chiamale cime, fili, funi, funicelle, spaghi, lacci, stringhe, cavi, canapi, legacci, gomene, sàrtie, sartiame, stralli, paterazzi, scilinguagnoli. Inventa nuove parole se preferisci, ma non pronunciare mai quel nome.
– Intesi.
– Secondo. C’è un’altra cosa da dimenticare: il colore verde in scena. E durante le prove, beninteso, che si tengano sotto la tenda o all’aria aperta.
– Sissignore – ma fu assalito da un dubbio sostanziale – Ma col diavolo in verde, come la mettiamo?
– Il verde, come il diavolo, un conto è nominarli, un altro averli davanti agli occhi. Tutto il contrario delle funi, il cui impiego è capitale, ma che non vanno nominate nel modo che non ti ho mai detto, ma che hai capito.
Risero tutti.
– E se lo indossa uno spettatore?!?
Orlando emise un breve sospiro.
– Quella del pubblico è una lunga storia, è bello vederli trepidanti e soddisfatti, comunque siano abbigliati, ma, vedi Nounours, il pubblico non interferisce con certe questioni, e quando dico pubblico dico… – sostò, alla ricerca dell’esempio più calzante – Facciamo il caso di un artista che assista a uno spettacolo altrui, e poco importa che abbia acquistato o meno un biglietto, e che sieda fra il pubblico, e che si goda lo spettacolo come tutti… beh, costui farebbe bene a evitarlo, il verde. Un artista non sarà mai uno spettatore. Spettatori si nasce, Nounours, come si nasce artisti. E nella vita si può fare di tutto, tranne cambiar razza. Questo è l’assunto. Poi potremmo raccontarci che ogni razza annovera esemplari più o meno ben riusciti. Ma l’assunto resta, amico mio.
Nounours restò parecchio colpito dal ragionamento. Alla storia dei ruoli predestinati non ci aveva mai pensato. Rimuginando sulla questione infilò un’altra volta la strada per il Palazzo Incantato del Mago Atlante. Che Atlante fosse nato artista era fuori questione, benché la sua natura di primo e unico artefice lo consacrasse altresì al ruolo di unico spettatore della sua stessa opera. E restava comunque insoluta la questione di coloro che capitavano nel suo Palazzo: al tempo stesso attori e prede della sua trappola: né artisti né spettatori, carne da macello per i trucchi del Mago, ibride creature penosamente ignare di quei miraggi, e per di più convinte d’essere artefici del proprio destino. Nounours arrivò a chiedersi se, potendo mai scegliere, avrebbe voluto esser Atlante o uno dei tanti visitatori. Quanta solitudine in quel perfido Mago spettatore di se stesso, si rispose, pensando che non restava che rassegnarsi, ma l’epilogo durò un attimo, perché riprese a scervellarsi. E se la storia di Atlante non fosse un paragone azzeccato? E se mi fossi cacciato in un pruneto? Senza un mago che intorbida le acque, allora sì, ci sarebbero artisti e ci sarebbero spettatori, e ciascuno farebbe la sua parte. Sì, sarà come dice Orlando.
Perdurando la ruminazione, quelli del Diable si lanciarono occhiate interrogative.
– E non ti chiedi la ragione di queste scaramanzie? – intervenne Célestin, ignaro d’esser capitato esattamente all’uscita del labirinto.
– Eh? – fece Nounours come fosse stato strattonato in pieno sonno.
– Non ti chiedi la ragione di queste scaramanzie?
– No. Mi fido di voi.
Mardea ridacchiò. – Dissi anch’io così. Mi fido di voi.
– Di che colore è il panno che riveste il fodero del tuo strumento? – gli domandò perentoriamente Orlando.
– Granata, signore.
– Invocherò per te il favore sempiterno delle muse.
– Tanto prima o poi dovrai saperlo, – fece Mardea – anche se non c’è molto da dire.
– Vero, – Orlando concesse il punto – ma non per questo puoi dirle bagattelle – e guardò Célestin.
– Va bene, ma facciamola breve. La storia delle funi. Per secoli la macchineria teatrale s’è avvalsa dei servizi di malfattori d’ogni sorta: marinai, carpentieri o furfanti sfuggiti al patibolo, e non era così raro che artisti di strada caduti in miseria concludessero la loro carriera con uno spago intorno al collo, quindi… alla larga dalle impiccagioni! Quanto al colore proibito, a onor del vero, ogni paese ha le sue convinzioni. In Italia guai a usare il viola, in Spagna il giallo, gli inglesi poi la fanno ancora più difficile: niente stoffe blu, a meno che non abbiano ricami o impunture argentate. Da noi invece è il verde. Qualcuno vuole che l’abito col quale Molière morì in scena fosse di quel colore. Invece era giallo.
– E allora? – fece Nounours.
– Altro che Molière. Ne ha fatte di vittime quel colore, ancora in tempi recenti. La tintura verde si faceva dall’arsenico… tessuti, tappezzeria, e finanche i dolciumi dei bambini. Prima o poi, chi ci stava troppo a contatto moriva avvelenato. Voilà.
Prosper non poté trattenersi dal glossare il succinto resoconto di Célestin.
– Per tacere degli avvelenamenti dolosi, nevvero… In verità, le virtù omicide dell’arsenico sono ben note da lunga pezza, tant’è che all’inizio del secolo un chimico britannico, brav’uomo, mise a punto un’infallibile procedura per accertare la presenza anche di minuscole tracce d’arsenico in qualsivoglia composto, procedura utilissima nelle analisi forensi, dato il ricorrente malvezzo di risolvere i contenziosi in modo sì melodrammatico. E tuttavia, il fatto d’aver contezza della dannosità dell’elemento non ne ha impedito il costante utilizzo nei pigmenti – qui abbassò la voce senza motivo, costringendo tutti a tendere l’orecchio per ascoltare il seguito. – Il nome è un presagio, miei cari: c’è una sostanza assai efficace che viene impiegata per sfrondare le colonie di ratti nelle fogne delle capitali. Il suo nome scientifico è arseniato di rame, ma tanto in Europa che nelle Americhe è comunemente nota come… verde di Parigi. Più chiaro di così…
– Caspita! – esclamò Nounours.
– Sta di fatto che col verde in scena le cose non vanno nel verso giusto – concluse Lou.
– Vita vissuta – confermò Orlando.
– C’è ancora un comandamento – s’intromise Mardea sorniona. – Il Diable non festeggia compleanni.
Fece la sua comparsa Antoinette, e andò direttamente ad annusare il nuovo arrivato. Sentendosi il muso della belva sulle gambe, Nounours si irrigidì. – Credevo la teneste in gabbia…
I circensi se la risero, e nessuno la richiamò.
– È tutta scena, Nounours – lo rassicurò Iano.
– Oh, è proprio un angelo! – ribadì Prosper.
Nounours azzardò una carezza e la lupa gli leccò la mano. Poi gli si accovacciò accanto.
– Chi l’avrebbe detto… – fece Lou, tra il serio e il faceto – un suonatore…
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