“Sogni e favole” di Emanuele Trevi ha il poeta Metastasio come filo conduttore, e tre intellettuali del Novecento come numi tutelari: il fotografo Arturo Patten, la poetessa Amelia Rosselli e il critico Cesare Garboli. Una passeggiata tra le vie di Roma è il pretesto per una rievocazione nostalgica di un tempo in cui cultura e arte erano sacre, quasi vocazioni
Felicemente inattuale, abbastanza nostalgico di uno scorcio del ventesimo secolo, piuttosto dinamico nella misura in cui… bisogna tornare agli anni dei cineclub e, soprattutto, seguirlo per le strade di Roma. Nel suo ultimo libro Emanuele Trevi mette in fila Metastasio, Arturo Patten, Amelia Rosselli, Cesare Garboli: figure che i ragazzi di oggi dediti a serie tv, tecnologia avanzata e spleen del terzo millennio – nelle migliori delle ipotesi – non hanno probabilmente idea di chi fossero. Trevi scava nei reperti del suo passato e regala un altro libro speciale e inclassificabile, in cui la nostalgia è scrollata di dosso ma non del tutto. Magari non tocca i vertici di Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie) del 2012, ma pizzica comunque felicemente corde inconsuete e, spesso, è già tanto.
Un sommo trio e un sonetto
Nell’ultimo Sogni e favole (224 pagine, 16 euro), pubblicato da Ponte alle Grazie, tono e stile richiamano inevitabilmente quelli di Qualcosa di scritto, mentre cronologicamente si va ancora un po’ più indietro nel tempo, all’inizio degli anni Ottanta. Il grande fotografo di ritratti Arturo Patten («incarnazione visibile del potere dell’opera d’arte») appare per primo col volto rigato di lacrime nel cineclub dove Trevi lavora; poi al centro della scena arrivano anche la poetessa Amelia Rosselli, amica dello psicanalista Mario Trevi (padre di Emanuele), che sulla «scacchiera della vita, così affollata di pedoni, era un pezzo nobile», e il critico Cesare Garboli, che al tavolo di un caffé si farà promettere dal giovane Trevi di scrivere un commento a un sonetto di Metastasio, filo conduttore del volume. Un sommo trio che aveva a che fare con la «bellezza duratura» e l’arte, come potevano intendersi nel ventesimo secolo, una questione sacra, anche di vocazione (oltre che di vita e di morte), non qualcosa utile a «tenere buona la gente a colpi di consenso narrativo e identificazione emotiva».
Trasmettere gli enigmi
Pochi passi tra le quinte teatrali di Roma – la capitale è protagonista notevole, grigia e poco ospitale, con alcune sue contraddizioni – tra coincidenze e connessioni sono lo spunto per digressioni, divagazioni e aneddoti di quello che era un adolescente, Trevi, alle prese con tre spiriti guida, maestri speciali e i loro ritratti commossi. Il risultato è una sorta di frammentata autofiction, un non romanzo intessuto di rievocazioni, una specie di saggio autobiografico, in cui c’è spazio per i fari coltissimi ed eclettici di un’educazione non solo artistica, ma di vita. «…e se qualcuno – si legge – ci trasmette qualcosa prima di andarsene, non siamo venuti al mondo per sciogliere gli enigmi, ma per conservarli intatti e trasmetterli a nostra volta ancora più incomprensibili di quando li abbiamo ricevuti». “Esistiamo davvero?” sembra chiedersi l’autore, che riflette sul tempo e sul desiderio, e in questo è aiutato tanto dalle strade e dagli edifici di Roma, vera ossessione di Trevi.
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