A un secolo dalla nascita di Stefano D’Arrigo, celebriamo l’autore di un immenso incantesimo, “Horcynus Orca”, storia di vita e morte, di un viaggio e di una metamorfosi, tra mitologia e seconda guerra mondiale. Scrisse un poema romanzo irripetibile, un libro che può duellare in bellezza con i più grandi di sempre, di ieri e di oggi. E altro avrebbe voluto e potuto scrivere…
Cent’anni, in gran parte di solitudine. Nacque un secolo fa, il 15 ottobre 1919, Stefano D’Arrigo, tra i maggiori scrittori del ‘900. Preferì il secondo nome al primo, Fortunato, per non sembrare un trovatello (la madre era tenutaria di un bordello…). Poco importa. Per alcuni è stato l’Omero del XX secolo, il Melville d’Europa, il Joyce dello Stretto. Lui è stato, inimitabilmente, D’Arrigo, messinese di Alì Marina, oggi Alì Terme, morto nel quartiere romano di Montesacro nel 1992, celebrato alla scomparsa dalla tv pubblica, perché il presidente Rai era Walter Pedullà, curatore della sua opera omnia; autore di un immenso capolavoro, l’incantesimo che risponde al titolo di Horcynus Orca (adesso nel catalogo Rizzoli), in cui coesistono mitologia e seconda guerra mondiale.
Labor limae e depressione
Fu protagonista di una mirabolante e titanica impresa, forse il sogno di ogni scrittore, una perenne, potenzialmente infinita, riscrittura di un libro, alla ricerca della perfezione. Quello che i serrati ritmi editoriali di oggi quasi impediscono. Un labor limae – intrecciato a una forma di depressione acuta – che mise sotto scacco la casa editrice Mondadori, i più noti dirigenti e collaboratori e perfino il suo fondatore, che attese invano, morendo quattro anni prima della pubblicazione.
L’aberrante gestazione
D’Arrigo nasceva poeta e critico d’arte, collaboratore di varie testate, anche del Giornale di Sicilia. Proprio su questo quotidiano il 25 settembre 1949 pubblicò un articolo, «Delfini e Balena Bianca», nel quale intravedeva nell’opera di Guttuso (prima caro amico, poi acerrimo nemico) «una stupenda, per quanto forse involontaria contaminatio di Omero con Verga». Per certi versi, un manifesto di se stesso e della quasi ventennale aberrante gestazione che trasformò un primo brogliaccio, La testa del delfino del 1956, ne I fatti della fera, pubblicato in parte nel 1960 da Elio Vittorini e Italo Calvino su Menabò e “prenotato” nel 1961 dalla Mondadori, dal direttore editoriale Vittorio Sereni e da Niccolò Gallo, responsabile della narrativa.
Una pluralità di codici, forme e generi
I quindici giorni concessi a D’Arrigo per la revisione delle bozze si trasformarono in quasi quindici anni, tra virtuosistiche digressioni, metamorfosi linguistiche (dialetto e neologismi), una pluralità di codici poetici – tragico, comico, cavalleresco, epico – e di forme, generi e livelli espressivi. Lavorava appartato, anzi segregato, protetto strenuamente dalla moglie Jutta Bruto (nella foto con lo scrittore), sua musa e sentinella, marchesa calabrese, di cui era innamorato e succube. Così, nel suo irripetibile poema-romanzo, raccontò gli ultimi giorni di vita del pescatore ‘Ndrja Cambrìa, marinaio che torna da Napoli in Sicilia, a Cariddi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, che attraversa lo Stretto tra fere, grandi delfini, femminote, e un’orca feroce, che è vita e morte, destino del protagonista.
Lo Strega? Semmai il Nobel
Incompreso, estraneo a classificazioni, in patria osannato e screditato (promosso da Pampaloni, bocciato da Citati), esaltato da uno dei più grandi critici letterari di sempre, George Steiner, Stefano D’Arrigo era anche – punti di vista – un megalomane o un autore consapevole della propria grandezza: ad Arnoldo Mondadori, che ogni mese gli versava circa centomila lire come anticipo e gli prometteva la vittoria del Campiello o dello Strega, D’Arrigo, piccato, chiedeva piuttosto strada per arrivare al Nobel. Il suo arduo e mastodontico work in progress Horcynus Orca, 1.257 pagine nella prima edizione, fu consegnato, dopo innumerevoli giri di bozze, alla casa nell’ottobre 1974 e andò in libreria nel febbraio 1975, per revisioni anche in extremis (i verbi «prendere» diventarono «pigliare», senza computer…). Per paradosso non fu aiutato dalla grancassa mediatica di Mondadori, capolavoro annunciato, caso e tormentone che disorientò i lettori (se ne vendettero comunque decine e decine di migliaia di copie) e indispettì molti critici, non tutti docili e dolci come quelli d’oggi, in tanti per esempio da un anno picconavano il vendutissimo La Storia di Elsa Morante.
Dionisiaco contro gli apollinei
Sostenuto da Vittorini e Pontiggia, D’Arrigo non era amato – sentimento ricambiato – da Sciascia e Moravia, scrittori apollinei che predicavano e praticavano altre forme di letteratura. Lui era di un’altra pasta, dionisiaco estremista, fautore di un tessuto narrativo complesso e polifonico e di un idioma immaginifico. Eppure col secondo e ultimo romanzo, Cima delle nobildonne del 1985, quasi rispose a Sciascia e Moravia: anche lui, non discostandosi dalla dicotomia vita/morte, era capace di una scrittura algida e razionale, più accessibile pur contaminata dal linguaggio scientifico, capace di non traboccare oltre le duecento pagine. Altro aveva programmato di scrivere. Nel 1989 rinuncia a una raccolta di racconti sulle “spadare”. Nel 1991, invece, inizia – per sintetizzare brutalmente – un nuovo romanzo marino, ma anche di mafia, protagonisti dei pescatori, contrabbandieri di sigarette, tra la provincia di Ragusa e Malta. Lo ferma la morte, nel sonno, ma la sua leggenda non è finita.
Vette e voragini
Esegeti, tifosi e groupies di miti di oggi e domani come David Foster Wallace o Roberto Bolaño, potrebbero guardare a uno di ieri, più vicino, per abbeverarsi di letteratura inaudita e leggendaria, di funambolismi lessicali e concettuali, di smisurata sintassi, di vette e voragini. Sono ancora in tempo, possono leggere Stefano D’Arrigo.
(Questo articolo è stato pubblicato in forma ridotta sul Giornale di Sicilia)