Libro-documento sulle esperienze di vita e professionali di Francisco Cantù, al confine tra Stati Uniti e Messico, è “Solo un fiume a separarci”: Intorno a una barriera che include e difende, ma che esclude e ferisce molti migranti, l’autore riflette ad alta voce, per dirci che nessuno può sentirsi escluso da un confine che, lentamente, si sta chiudendo intorno a noi
«I sogni descrivono la situazione del sognatore», così scriveva lo svizzero Carl Jung e sono proprio i sogni che finiranno per portare Francisco Cantù a una nuova consapevolezza. Si arruola nella polizia di confine nel 2008 (per lasciarla nel 2012) e quando lo fa, dopo aver studiato per anni ciò che il confine determina, sa che è sul campo che può comprendere meglio il fenomeno della migrazione e sa anche che sul confine si dipana un dramma antico. Intorno a una barriera che include e difende, sa che matura un’esclusione che procura ferite e determina i destini.
Compromessi e mappe ridisegnate
Autore di un libro-documento, come potremmo intendere la sua opera Solo un fiume a separarci (263 pagine, 16 euro), tradotta da Fabrizio Coppola e pubblicata da minimum fax, Francisco Cantù confessa che pensava sarebbe stata, la sua, «una testimonianza su un periodo oscuro, su un passato di gran lunga peggiore del presente», scoprendo, invece, che non è stato così. Siamo sulla frontiera fra Stati Uniti e Messico, Francisco Cantù di origini messicane ma con nazionalità americana, decide di arruolarsi perchè il confine lo suggestiona, lo abbiamo detto, ed è spinto da quella sensazione che solo «il campo» sarà in grado di restituirgli i significati che va cercando. Nelle riflessioni di Cantù c’è l’analisi storica di una frontiera frutto di compromessi e di mappe continuamente ridisegnate per definire le distanze di quei territori, ma c’è anche un confine naturale, dato dalla morfologia dei territori, come un fiume, un canyon, un deserto, che di fatto non divide, ma ci dice quanto questi territori limitrofi condividano un unico paesaggio.
Da sogni a incubi, a reati
È un libro-documento perchè raccoglie la propria esperienza, ma anche quella dei tanti migranti che si riversano sul confine per tentare di passarlo e lo fanno appoggiandosi ai coyote (chiamati così i facilitatori e le guide che aiutano i migranti messicani ad attraversare il confine), lo fanno per una remota speranza di fuggire dalla violenza, da un destino già scritto, lo fanno, a volte, a causa dei traffici di droga. Nella prima parte del libro il tentativo postumo di Francisco Cantù è di descrivere la violenza «insita nella lotta all’immigrazione clandestina». C’è tutto dentro al libro di Cantù, ci sono i sogni che si trasformano in incubi, in ansie, in reati violenti che si trascinano dietro il dolore. Ci sono le parole di papa Francesco che richiamano alla misericordia e anche i riferimenti a Lampedusa. Ci sono parole in spagnolo che restano tali, senza traduzione, come se finissimo per essere noi gli stranieri di fronte a tutto questo. C’è il pericolo che è addosso a Cantù, alle guardie di confine, e nei passi sconosciuti dei migranti che attraversano il deserto o proprio lì trovano la fine.
Un disegno in bianco e nero
Il reportage che emerge da quel diario tenuto in quei giorni, è un disegno in bianco e nero, dove i tratti umani sono spezzati, sono distorti, sono accecati da una luce lancinante che nel deserto non impedisce a nessuno di tentare di passare il limite. Sono i sogni stessi che inseguono Cantù, sogni diventati sempre più feroci, in cui tutto va distruggendosi, in cui non c’è modo di difendersi, in cui il singolo pensiero viene frantumato in piccoli pezzi incapaci di stare insieme, sono gli incubi a far trasparire che indifferenti non si resta, nè verso gli altri, nè verso se stessi. Parole come rimpatrio, detenzione, migrazione, assenza, saranno termini che non sopporteranno più significati astratti. In una conversazione, sua madre gli fa notare: «Di sicuro ci sono migliaia o milioni di persone nella sua situazione, ma è solo grazie a lui se la loro condizione per te non è più qualcosa di astratto».
Vite come merci
Nella seconda parte del libro il racconto indaga «la riduzione in merce delle vite dei migranti e della violenza delle narcoguerre – un elemento che molto spesso spinge i migranti a tentare il viaggio verso il Nord». Il confine presidiato, pattugliato, osservato dalle vedette di chi traffica droga ed esseri umani, diventa forte quando frasi come «la gente crede che sia normale», diventano davvero una quotidianità. La normalità di convivere con la violenza, è quest’ultima a spingere spesso le persone a oltrepassare quel confine per cercare lontano da quella guerra, che spesso non viene battuta dalle agenzie di tutto il mondo, un destino diverso. La terza parte ci mette in guardia: «Ho voluto tratteggiare da vicino la minaccia che aleggia incessantemente su queste persone, anche quando da anni hanno iniziato una nuova vita nel nostro paese: una minaccia sempre pronta a presentarsi alla loro porta», sarà il contatto diretto e intimo con l’altro a ribaltare nuovamente il punto di vista.
Uno spaccato di cui siamo parte
Lascerà la polizia e tornerà a studiare Cantù, giornalismo questa volta, rendendosi conto che spesso sopravvalutiamo noi stessi “e sottovalutiamo le istituzioni del potere, illudendosi che si può lavorare per cambiarle (le istituzioni, ndr) dall’interno, che assistendo alla violenza da esse perpetrata sarà possibile imparare a sovvertirla senza davvero parteciparvi». Un libro per ricordare inchieste, numeri, la storia dei territori, ma soprattutto quello spaccato umano di cui siamo parte. Una riflessione fatta ad alta voce a tu per tu con il lettore, costringendolo, infine, a un confronto con ciò che non vuole vedere, a dirci che nessuno può sentirsi escluso da un confine che, lentamente, si sta chiudendo intorno a noi.
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