Due provinciali, fedeli l’una all’altra nonostante distanze abissali: modesta e saggia Marie, audace e sensuale Sylvie. Sbarcano il lunario a Parigi, dove si perdono di vista per decenni, prima di ritrovarsi. Sylvie chiede ancora una volta una mano e… s’arriva a un gran finale, che esalta Simenon, maestro di atmosfere e psicologie
Due terzi di secolo fa apparvero nelle librerie Sylvie e Marie, ennesime creature di carta di Georges Simenon. Una mantenuta e potenziale ricca ereditiera e l’amica-serva di una vita, nonostante tutto, che probabilmente non avrebbe rinunciato per nulla al mondo a pettinare i capelli biondi dell’altra ogni giorno: affrontano la povertà della gioventù e in genere la vita, in modi diametralmente opposti, sfrontata la prima, responsabile e saggia Marie. Scrive del cuore dell’Europa e soprattutto del nucleo dell’umanità, Simenon, e lo fa dagli Stati Uniti, nel caso di questo Marie la strabica (192 pagine, 18 euro), pubblicato come sempre da Adelphi, tradotto dalla decana Laura Frausin Guarino.
Un furto, un suicidio
Quando dalla provincia giungono a Parigi, Sylvie, properosa, ambiziosa e calcolatrice, inizia una scalata sociale che aveva nell’anima e in testa da sempre, la brutta Marie invece non fa voli pindarici, galleggia nella mediocrità, s’accontenta come può. Progetti di vita opposti, per donne che faranno presto a perdersi di vista, per lungo tempo, nella metropoli francese. Simenon segue questa specie di amicizia, che si nutre principalmente di sogni mancati, dai primi passi: sono vicine di casa, compagne di scuola, nei primi anni Venti cameriere ai tavoli di una pensione familiare, quella del signor Clément, a Fouras. Ciascuna a modo suo, Sylvie consapevole del potere del suo corpo e della sessualità, Marie spaurita e dedita quasi religiosamente alla fatica. Fino alle conseguenze estreme, più di una volta. A cominciare da un furto indotto da Sylvie che porterà a un suicidio, quello di Louis, ragazzone con un ritardo mentale, che cede a più di una provocazione.
Le frasi spoglie del genio
I periodi compressi ma più che significativi della prosa di Simenon scintillano anche in questo romanzo, frasi spoglie ed essenziali che tengono desto il lettore, coinvolgendolo, illustrandogli gli arazzi dell’animo umano, tutto ciò che è sommerso e invisibile agli occhi. Non servono troppe parole al genio belga o aggettivi superflui per indagare due tipi femminili complementari: la rassegnazione e il pessimismo di Marie, l’ambizione e l’egoismo dell’amica che non esiterà a tradirla (seducendo perfino un timido contabile che aveva invitato al cinema l’amica) avrà sempre bisogno di lei, anche quando – siamo alla metà degli anni Quaranta – si incontreranno di nuovo dopo parecchi anni e Sylvie le chiederà una mano: vicina a ereditare il patrimonio del ricco produttore di scarpe Omer Besson, uomo che ha conquistato e che è consumato da una malattia, ha bisogno della compagna di sempre, che però si rivelerà davvero per quello che è. Sorprendentemente. Per un epilogo che in qualche modo ribalta i ruoli.
Chi la carnefice? Chi la vittima
Quella che a lungo può sembrare la protagonista è lentamente esautorata. La forte carnefice (meno impudica, un po’ stanca e dipendente dalla bottiglia) e la debole vittima, che sembra non emanciparsi mai dalla prima, sembrano troppo definite per scambiarsi i ruoli, eppure Simenon – maestro d’atmosfere e di psicologie – calibra la complessità del loro rapporto in modo impeccabile. Ripesca queste due provinciali, fedeli l’una all’altra nonostante distanze abissali, dopo decenni e ne stravolge le strade.
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