Con “Necropolis” Giordano Tedoldi ha scritto una sorta di tenebrosa speculazione filosofica travestita con gli indumenti della fiction. La morte come destino alita con la sua brezza purificatrice su ogni pagina. Il cosiddetto mondo è un immenso cimitero e il Maresciallo Yarden deve scegliere dove essere seppellito: una funerea odissea in compagnia di un bizzarro terzetto
Per tutti noi lettori paludati, inquadrati e abituati a ragionare per causa-effetto, con un prima e un dopo, un dove e un come, probabilmente leggere Necropolis di Giordano Tedoldi (282 pagine, 16,60 euro), edito da Chiarelettere, è qualcosa di spiazzante. Manca l’antefatto eppure si intuisce che qualcosa è successo. Sebbene non possiamo scorgere la causa del suo sfaldamento, si capisce che il mondo per come lo conoscevamo non esiste più, o se ne è rimasto qualcosa è in fase di smobilitazione: la scienza è stata abrogata, sostituita da scienze occulte e sciamanesimo; la storia è un simulacro, come la politica. Non inganni la apparentemente didascalica suddivisione fra Necropoli Ovest e Necropoli Est, non stiamo parlando del mondo come lo conosciamo o come lo conoscevamo con i blocchi ideologici contrapposti e con tutti gli altri suoi dualismi. Il cosiddetto mondo è un immenso cimitero e il Maresciallo Yarden, forse un ex dittatore, forse un santo, è chiamato alla ineluttabile scelta su dove essere seppellito. Lo accompagna in questa funerea odissea un bizzarro terzetto composto da Rama, suo nipote tredicenne, Pierre, un assistente androide e il negromante Max.
Come un Dante con i suoi Virgilio
Come un Dante con i suoi Virgilio ci addentriamo con il Maresciallo e i suoi compagni di viaggio in un mondo sconosciuto oltre il mondo, eppure qualcosa ancora vi traspare, come nel quadro di un pittore naturalista che strada facendo si discosta dalle forme sicure e riconosciute per portare la sua arte a un puro astrattismo. In qualche modo il mondo che Tedoldi tratteggia ci sembra di conoscerlo, è come uno specchio dove possiamo vedere noi stessi, o quello che siamo stati, immagini e scene da un sogno, anzi da un incubo, sovrapposte, fuori fuoco e che seppure sconnesse riconosciamo provenienti da un qualcosa che pure somiglia a quello che riteniamo certo e rassicurante del nostro abituale, geometrico e razionale quadro.
Che la letteratura di Tedoldi sia anticonvenzionale e che con l’esoterismo abbia sempre amoreggiato è del resto testimoniato dalle precedenti prove dell’autore romano. Necropolis è la terza parte e naturale sviluppo della cosiddetta “Trilogia del delirio”, dopo l’esordio al romanzo con il dirompente, perturbante e onirico I segnalati (Fazi, 2013) e il successivo Tabù (Tunuè, 2017), un work in regress fino alle soglie di tutte le più consolidate convenzioni. Necropolis disegna un paesaggio post-apocalittico che forse non ha nemmeno senso definire post, perché vita e morte si assomigliano, sono compenetrati l’una nell’altra, gli stessi nessi casuali e spazio temporali perdono una loro rigida connotazione.
Un congedo dalla storia
È un viaggio oltre lo specchio dove non troviamo alcun paese delle meraviglie alla Lewis Carroll, ma un vero e proprio congedo dalla storia, una sorta di tenebrosa speculazione filosofica travestita con gli indumenti della fiction. In alcuni passaggi si ha l’impressione che la traccia romanzesca sia solo un pretesto per illustrare un quanto più oscuro possibile ed esoterico saggio filosofico, dove alla freddezza dell’analisi si mescola la terrigna, carnale e disfatta materia in putrefazione delle creature romanzesche e le loro varie aberrazioni, dalle evocazioni che si susseguono nella Necropoli Ovest, in un inquietante viaggio nelle caverne e le grotte di una necropoli dove viene infranta qualsiasi barriera spazio-temporale e ci si può trovare di fronte a se stessi da bambini, oppure alle prese con sciamani contro i quali sono state intraprese battaglie campali decisive della stessa esistenza della vita sulla terra, fino all’incontro con Jung, il poeta suicida, con il “poeta filosofo, scienziato, musicista, acrobata del circo Abdus Wakil” e le sue creature ibride, mezzo uomini, mezzo piante, per passare al sanguinario Barone Valdegamas e la Baronessina Margherita, sua figlia, fino al prete pedofilo e all’ermafrodito Andrea.
Una distopia? Riduttivo
La cornice del romanzo è certamente la distopia. La teoria delle Tre cesure è illuminante in tal senso: La prima cesura è la nascita del mondo da materia inerme, la seconda la nascita del linguaggio e la terza, la più inquietante, quella che ci dovrà svelare il genere sessuale della terra e che destinerà la specie umana alla sua scomparsa o sostituzione perché non è vero che questa sia stata la più alta produzione del mondo naturale ma solo quella predominante. Sarebbe però riduttivo affibbiare a Necropolis un genere. La morte come suggerisce il titolo la fa da padrone. Una concettualizzazione, quella della morte nel libro di Tedoldi, non da considerare nel nostro modo razionalizzante, per leggere questo libro dovremo essere pronti ad abbandonare tutte le nostre più consolidate convinzioni e strutture, anche di lettori. La morte in Necropolis, lungi da essere uno spazio condominiale, tanto vicino alla nostra concezione occidentale permeata di razionalismo, e quindi cadaveri che risuscitano ancorché nelle coscienze di chi li pensa, catacombe, grotte, viaggi danteschi, è un destino e ciò che avvolge tutto, organico e inorganico, passato e futuro. Istinto di vita e istinto e di morte freudianamente convivono e si contaminano. La morte come destino, l’essere per la morte, punto più alto della meditazione filosofica sull’essere nel mondo di Martin Heidegger, alita con la sua brezza purificatrice su ogni pagina.
Un dualismo irrisolto
La storia, se ancora esiste qualcosa che può essere designato in tal modo in questo universo quantistico avrà solo da occuparsi de «l’agonizzante decomposizione di questa vescica gonfia che sa tutto e non vale nulla». L’esistenza stessa del pianeta terra è qualcosa di più legato alla psicologia e alla poesia che a qualsiasi altra scienza naturale e sembra non esistere ma obbedire ai nostri desideri e bisogni. «La terra è posta come corollario matematico della nostra moralità». Lo spazio e il tempo, espressioni di una limitatezza, rimangono unicamente come corollari, come possibilità stessa della narrazione e garanti della sua struttura che è quella del viaggio. Dalla Necropoli Ovest, i nostri anti-eroi accompagnano il Maresciallo Yarden alla ricerca di una sepoltura, anche questa espressione di una scelta, di un dualismo irrisolto:
“Il motto della Necropoli Ovest era: – Vivi per la tua morte – il motto delle Necropoli Est era: – Muori per la vita degli altri -”
Il tema della scelta e gli illusori dualismi che coprono con il velo di Maya delle apparenze delle filosofie orientali (che Tedoldi si deve supporre frequenti abitualmente), il campo di forze che regge le eterne leggi, ricorre costantemente nel romanzo, soprattutto in quei progressivi e apparentemente cruciali snodi argomentativi che sembrano volerci fornire una bussola e farci capire ove l’autore voglia portarci o solo cosa gli stia a cuore illustrarci: la lotta dei sessi con il “semiuomo” o “semidonna” Andrea; l’antinomia tra “Visioni collettive” e istanze individuali; storicismo e antistoricismo; scienza e occultismo; la falsa opposizione fra le teorie del bene opposte a quelle del male, con tutti gli alibi e imposture che queste danno concretizzando esiti indifferentemente orridi.
Nichilismo ed echi nietzscheani
Il dilemma morale fra lo “schierarsi da vivo per la morte”, il motto della Necropoli Ovest e quello della Necropoli Est “Muori per la vita degli altri” in realtà non ci porta da nessuna parte, perché «il centro è crollato», perché «l’appartenenza è una maledizione da quando il centro è crollato» e nessuna ideologia, prospettiva, argomentazione ha una predominanza sull’altra. Nichilismo certo, una morale al di là del bene e del male con echi nietzscheani che si respirano ovunque. La morale insomma, la storia, l’idea di giustizia, il libero arbitrio, l’amore, presi a sonore pedate dall’autore. D’altronde lo dice in quarta di copertina: «Mi servo della letteratura per scioccare»
La stessa opposizione fra le due Necropoli può essere apparente e funzionale all’esplicitazione di questo «centro crollato». Alla mefitica e ancorata al passato Necropoli Ovest viene contrapposta l’ eterea e asettica Necropoli Est, una stazione orbitante a 36.000 km di altezza, ricettacolo delle coscienze, anfratto digitalizzato delle anime, un inquietante e futuribile, anzi già presente in ossequio alla weltanschaunung di Tedoldi paesaggio robotico e fantascientifico, forse una reminiscenza tarkovskiana dell’autore, tanto assomiglia questa al pianeta Solaris nato dall’’immaginazione del cineasta russo. In questa “catacombe di menti” Yarden incontra la madre, uccisa dall‘assistente androide Pierre dietro il cui volto si cela lo stesso Yarden, ancora Freud, e di nuovo Andrea, l’ermafrodito o “semidonna” con la quale ha avuto un rapporto sessuale a seguito del quale la stessa è morta, venendo successivamente rianimata, anzi “rigenerata” sotto le spoglie di un amore giovanile, l’amore, altra impostura e illusione. Giunti a questo punto, si può fare probabilmente viva anche nel più disorientato lettore, (e a questo punto disorientato dovrebbe esserlo al punto giusto),la consapevolezza che le due necropoli siano in effetti «due modi diversi per non essere solo mortali: attraverso la deposizione in un idolo di conservazione isolante di rammemorazione e attraverso la compressione e decompressione digitale delle informazioni».
I continui bivi per il lettore
Senza necessariamente dover andare alla ricerca di presunti numi tutelari quali il post-apocalittico (post-esotico direbbe lui) Volodine, Philip Dick o il quasi del tutto dimenticato e stigmatizzato in vita Morselli, raffronti ai quali probabilmente lo stesso autore risponderebbe con uno sberleffo, dovremo riconoscere comunque che la scrittura di Tedoldi chiede molto o tutto alla sperimentazione e pone il lettore di fronte a dei continui bivi, sollecitazioni e fratture, rendendolo conscio della non immediatezza della scrittura e della sua stessa accessibilità, fondamentale in ogni caso alla sua diffusione e durata nel tempo, accessibilità che può essere minata da brani come questo che prendo a semplice esemplificazione e che possono operare come veri e propri respingenti: «Yarden lascia la tendopoli accompagnato da un’eiaculazione della solita tromba confusa tra i polpacci, soffice cuscino su cui il dannato voleva esortare il resto della truppa a deporre un morituri te salutant». Se invece siamo disposti a restare al gioco, ad accettare Il punto di vista dell’autore, il buco nero dal quale è scaturita questa danza macabra suonata al contrario che è Necropolis, saremo ampiamente ripagati da questa strana litania che respinge e attrae allo stesso tempo, da questo castello stregato nel quale ci sembra di perderci in territori sconosciuti, come nel più profondo dell’inconscio, come in un film di David Lynch.
Il monologo di Rama
La regola aurea di ogni recensione è quella di non svelare il finale cosa che ovviamente rispetterò, oltre possibilmente a chiarire il testo e a sollecitarne la lettura. Non so se queste due ultime condizioni siano state rispettate o se sia viceversa riuscito a rendere ancora più oscuro un testo di per sé enigmatico e tenebrosissimo, il che potrebbe nella logica nichilista di Necropolis essere ritenuto proprio un obiettivo centrato. Il suggerimento è quello banalmente di arrivare in ogni caso fino alla fine del romanzo di Tedoldi, anche solo per apprezzare il monologo di Rama, il nipote tredicenne di Yarden, da leggere tutto d’un fiato. Non può che intitolarsi “Ode alla morte” questo ultimo capitolo. La morte che indistinta dalla vita tutto avvolge e avviluppa, pervadendo l’intero vivente, alitandoci costantemente sul viso, fino a farci detestare la vita stessa che forse siamo stati disposti ad amare come Rama solo «qualche volta la sera, quando faceva buio e il mondo raggrinziva come gelando».
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