Un flusso di pensieri fatto di domande, ossessioni e ironia a proposito del diventare genitori. La canadese Sheila Heti con “Maternità” scrive un libro che si divora e che tocca un tabù: anche nelle società più avanzate le donne senza figli non sono accettate. Diventar madre è solo uno scenario possibile, dinanzi all’orologio biologico. E finisce per essere una questione intima, pubblica, politica e perfino artistica
Andate e moltiplicatevi. Oppure no. Una donna quasi quarantenne si interroga ossessivamente, ma anche con ironia – dunque prendendosi sul serio relativamente – sull’eventualità di avere un figlio, «il più grande segreto che nascondo a me stessa». Un’autoconfessione sincera, che si intreccia alle esperienze di amiche più o meno della stessa generazione. Un dilemma tra ragione e sentimento. Scritto così bene che poco importa che vengano meno trama e fili logici, è il flusso dei pensieri a fare la differenza e a fare divorare le pagine. La lettura di Maternità (290 pagine, 16 euro) di Sheila Heti, canadese di origini ungheresi (come David Szalay), tradotto da Martina Testa, è comunque esaltante, tonificante e va in profondità, tocca un tabù, perché le donne senza figli continuano a far fatica, non sono accettate in molte società, anche in quelle apparentemente più avanzate e colte. Siamo in presenza, autofiction o meno, di una delle scrittrici più intelligenti e profonde del panorama contemporaneo. In Italia l’ha fatta sbarcare la casa editrice Sellerio, con il precedente La persona ideale, come deve essere?, che fa bene a ridarle fiducia.
Domande e reazioni contrastanti
La voce narrante – labirinto di disillusioni ed esaltazioni – ha abortito a vent’anni («Quando penso a tutta la gente che nel mondo vuole vietare l’aborto, mi sembra che il senso possa essere uno solo: non è che vogliono una persona nuova al mondo, vogliono che le donne si occupino innanzitutto di tirare su i figli»), si è spesso affidata ai contraccettivi e anche alla pillola del giorno dopo, ha molte volte amato uomini che non volevano aver figli. Divorziata, ha un compagno (Miles, che ha una figlia) e, in quanto ebrea (nipote di sopravvissuti della Shoah, figlia di ebrei ungheresi sbarcati in Nord America… come Heti), si chiede perfino se, tenuto conto degli inferni del ventesimo secolo, non fosse il caso di sostenere personalmente la crescita del suo popolo. Per trovare risposte si affida alla filosofia come al lancio dei dadi, al confronto con le storie di sua madre e di sua nonna, alle conversazioni con gli amici, che siano genitori o meno. Ricevendo opinioni e reazioni contrastanti e arbitrarie.
Sul dolore di venire al mondo
La canadese Heti sceglie un alter ego per mettersi a nudo e a proposito di maternità vuole «non rispondere a nessuno, non compiacere nessuno, lasciare tutti in sospeso, da maleducata», in barba a ciò che la società s’aspetta dalle donne («La donna che non ha un figlio la si guarda con la stessa antipatia e disapprovazione di un uomo che non ha un lavoro.»), a una pressione collettiva costante, che è nei fatti. L’esser madre, vien da pensare leggendo Heti, è tutt’altra cosa rispetto a certo mito della maternità al giorno d’oggi. E sul nascere, sul dolore di venire al mondo forse non è stato scritto abbastanza, o non è stato scritto abbastanza bene. Concetti che, invece, emergono dal dialogo della voce narrante con amici e sconosciuti, col partner, perfino con indovine. Si oscilla così dalla proiezione della gioia o dei rimpianti (per aver figli o per non averne), a quella delle tribolazioni o della libertà (per aver figli o per non averne), in una scrittura che spesso è lirica, in una dimensione che è sì autobiografica, ma più che altro speculativa, filosofica, quasi religiosa, e che torna ripetutamente su poche, pochissime inestricabili domande, forse una sola
Figli e creatività, conciliabili?
La domanda, fra le tante, probabilmente è: «Voglio forse dei figli perché desidero essere ammirata come il tipo di donna ammirevole che ha dei figli?».Oppure potrebbe essere: «C’è una sorta di tristezza nel non desiderare le cose che per tante altre persone danno senso alla vita?». Diventar madre è solo uno scenario possibile, dinanzi al ticchettio delle lancette dell’orologio biologico (la fretta che, convenzionalmente, si mette sulle spalle delle donne, il tempo infinito che sembrano avere gli uomini per fare cose importanti, determinanti, cruciali…). E non è solo un istinto, un desiderio, un obiettivo, ma anche un condizionamento della società, una pressione culturale, la sfida di una donna a se stessa, a costo di complicarsi, migliorarsi, l’esistenza. Heti non vuol convincere le donne a non mettere al mondo figli, ma vuol, far comprendere come sia coraggioso sia diventare madre che non esserlo. Aver figli, o non averne, finisce per essere una questione intima, pubblica, politica e perfino artistica, nel senso che non mancano, anzi sono parte essenziale dello scheletro di riflessioni del romanzo, le osservazioni su quanto maternità e creatività possano coesistere o entrare in conflitto.