Intervista a Samanta K. Milton Knowles, traduttrice italiana della fumettista svedese Liv Stromquist: “Mai visti energia e coraggio come quelli che ha Liv, è acuta e tagliente. Ragazze e ragazzi dovrebbero leggere il suo libro per avere coscienza del proprio corpo. Le donne sono ancora un tabù”. In “I’m every woman” Stromquist racconta celebri icone capaci di nascondere la natura maschilista e fedifraga, che hanno riversato insicurezze e disagi sulle compagne
Liv Stromquist, fumettista, speaker radiofonica e illustratrice svedese, torna in Italia con una nuova e straordinaria graphic novel targata Fandango Libri. Dopo Il frutto della conoscenza, il titolo della sua nuova opera è I’m every woman, un collage di riflessioni in forma di fumetti, a colori e in bianco e nero, in cui indaga il significato dell’essere donna in epoca virilistica e maschiogenica (per usare dei neologismi). I’m every woman corrisponde a uno dei suoi primi lavori, di quando l’autrice, appena ventenne, nel 2008, inizia a produrre queste opere sfrontate e sagaci. Senza tanti giri di parole e con acuta ironia, Liv Stromquist analizza il comportamento dei maschi alfa nei confronti delle donne omega «indottrinate con il mito dell’amore» ossia «quello che fa credere che il rapporto di coppia donerà sicurezza e gioia definitiva e libererà per sempre dall’angoscia». L’autrice, dunque, riscrive la storia da una prospettiva femminile. Prende in esame certi miti (la meretrice di Babilonia, I Simpson, i Barbapapà) e la vita di alcuni celebri artisti che, nel tempo, divenuti icone di riferimento dell’arte, della scienza, come Jackson Pollock, Edvard Munch, Elvis Presley, John Lennon e Albert Einstein, nonostante la loro fama di pittori, cantanti e scienziati, siano stati capaci di nascondere virilmente la loro natura maschilista e fedifraga, forse anche frustrata, facendola divenire parte di un modus vivendi disordinato, proprio per il ruolo ricoperto, e abbiano riversato disagio e insicurezza sulle compagne, le quali, in nome dell’amore hanno personificato , si potrebbe dire, il celebre brano di Whitney Houston, omonimo della graphic novel: («I’m every woman/It’s all in me /Anything you want done, Baby /I’ll do it naturally / I’m every woman/It’s all in me; Io sono ogni donna/È tutto in me/Ogni cosa che vuoi sia fatta/Io la faccio naturalmente/Io sono ogni donna/È tutto in me»): basterebbe leggere la vita di Priscilla Presley, compagna di Elvis, (e non solo) per comprendere che esiste una affine prostrazione al brano in questione. I’m every woman è una graphic novel intelligente e graffiante che dosa bene ironia, sagacia e acume, capace di suscitare nel lettore variegati stati d’animo.
Noi di Lucia Libri, curiosi come siamo, per saperne di più sull’argomento abbiamo deciso di intervistare la traduttrice italiana di Liv Stromquist, Samanta K. Milton Knowles.
Esiste, secondo lei, un corrispettivo in Italia, dissacrante o illuminante quanto questa scrittrice?
«Sembrerà una banalità, ma secondo me come Liv c’è solo Liv. O almeno, io non ho mai incontrato nessuno con la sua energia, col suo acume e col suo coraggio».
Lei è la traduttrice ufficiale di Liv, in Italia. Qual è stata la sua prima impressione quando le hanno chiesto di tradurla? La conosceva da prima?
«Ho conosciuto Tiziana Triana di Fandango a Tempo di Libri, nel 2017, mentre facevo da interprete a una mia scrittrice, Jessica Schiefauer. Quando Tiziana mi ha proposto di tradurre il primo di Liv, Il frutto della conoscenza, non conoscevo questa fumettista e non avevo neanche mai tradotto fumetti. Però è stato amore a prima lettura! Lo stile irriverente e senza peli sulla lingua di Liv ha subito fatto al caso mio. Sono stata felicissima di tradurre quello che secondo me è un libro che tutte le ragazze (e anche i ragazzi) dovrebbero leggere per avere coscienza del proprio corpo».
Che idea si è fatta di questa autrice?
«Penso che Liv sia una grande testa pensante, capace di una critica acuta e tagliente. Ha molte cose da dire e le sa dire bene, aiutandosi con una marea di fonti. Da questo deduco che legga e studi moltissimo. È di sicuro anche una vera artista».
La graphic novel pone dei limiti alla lingua?
«In generale il fumetto pone dei limiti di spazio, soprattutto. Lo svedese è una lingua in generale più breve di quella italiana, quindi si tende a fare frasi più lunghe in traduzione… questo ovviamente non è possibile nei fumetti. Le graphic novel di Liv, però, sono abbastanza atipiche, perché usa font sempre diversi e di grandezza variabile, quindi c’è un po’ più di libertà».
Come è stato attenersi allo stile di Liv?
«Devo dire che non ho avuto molte difficoltà, mi è venuto sempre molto naturale. Il suo stile e il suo linguaggio sono proprio nelle mie corde. Inoltre sono una specie di camaleonte linguistico (anche nel parlato), e faccio poca fatica a calarmi nel linguaggio degli scrittori che traduco».
Secondo lei il corpo delle donne è ancora un tabù, in Italia? È un tabù in generale, o siamo più avanti di quello che pensiamo?
«È un tabù ogni volta che una donna crede di non poter dire “no”. È un tabù quando le cariche importanti sono ricoperte solo da uomini. È un tabù quando si ha paura di usare i femminili, grammaticalmente più che corretti, delle professioni. È un tabù quando il presentatore TV è uomo e la donna è sempre e solo la valletta. È un tabù quando in una recita di prima elementare ai maschi vengono proposti ruoli come orsetti, soldatini e clown, mentre alle bambine solo ballerine e bamboline. Quindi sì, è tabù. La donna stessa è ancora tabù per molti, troppi. L’Italia ha fatto passi avanti, ma la strada è ancora lunghissima!»
Uno degli intenti della graphic novel, a mio parere, è quello di svuotare le icone del loro fascino, dunque del loro potere (Pollock, Munch, Elvis, e addirittura Einstein), un inverso ready-made, per parafrasare Duchamp, in cui si pone l’attenzione sul soggetto-naturale e non solo sul soggetto-icona. Che ne pensa?
«Be’, certo, Liv vuole proprio questo. Vuole sfatare i miti indiscussi, rendendo le icone nient’altro che umane, e non delle migliori. È il dilemma che tutti abbiamo con alcuni artisti, di cui ci piace l’arte ma non il pensiero, la persona. La prima volta che ho riflettuto su questo argomento è stato quando ho letto Fame di Knut Hamsun. È stato (e forse è ancora) uno dei miei libri preferiti, ma non riuscivo a fare pace col fatto che Hamsun fosse stato un nazista convinto, che non aveva rinnegato la propria ideologica neanche dopo la morte di Hitler. Piano piano, però, mi sono detta che ciò che mi piaceva non era lui, ma l’opera, che non è sovrapponibile alla persona. Lo stesso posso dire di Munch. È forse il mio pittore preferito in assoluto, e l’emozione che ho provato quando ho visto per la prima volta Il grido dal vivo è stata indescrivibile. Tuttavia lui come persona non mi piace. Le cose che ho scoperto sul suo conto però non hanno cambiato il mio modo di vedere la sua arte. Diverso è il caso di Einstein, dove la “paternità” (qui forse davvero dovremmo parlare di maternità) delle teorie è stata erroneamente attribuita solo a lui, lasciando la moglie Mileva Marić nell’ombra. Questo mi fa rivedere radicalmente la mia opinione sullo scienziato. Però in maniera del tutto slegata dalla teoria stessa, ovviamente».
Le donne presenti nel libro vengono citate spesso in riferimento al loro ruolo di mogli e compagne: I’m every woman o I’m every wife? This is the question. Siamo davvero solo le mogli di qualcuno?
«È proprio questa la critica che vuole sollevare Liv, secondo me. Lei toglie il velo di “moglie di” a tutte queste donne, dando forma nella mente dei lettori a nuove figure femminili, con tutte le loro complessità. Inoltre vuole proprio farci indignare del fatto che pensiamo ad alcune donne solo come alla moglie di qualche uomo famoso».
Come si esce da questo empasse?
«Dando volto e memoria alle donne rimaste nell’ombra e non lasciando nell’ombra quelle di adesso. Lo so, più facile a dirsi che a farsi, ma è l’unico modo».
Che valore ha oggi la formula “parità di genere” in Italia?
«Un valore vuoto, purtroppo. Se per parità di genere intendiamo le quote rose a prescindere dalla qualifica e dall’aspetto meritocratico siamo ben lontani da una parità reale. E poi cosa significa “parità”? Parità di dover lavorare in ufficio, oltre che a casa? Parità di poter prendere solo pochissimi giorni liberi per maternità, come fanno gli uomini? Insomma, ci sono moltissimi aspetti su cui ancora ce n’è da fare, di strada».
A quali altri lavori di Liv sta lavorando?
«Top secret! A parte gli scherzi, posso solo dire che credo proprio che I’m every woman non sarà l’ultimo di Liv a uscire in Italia… e non perdetevi il prossimo, perché ne vale davvero la pena!»
Andiamo al suo lavoro: come è diventata traduttrice?
«Sono nata in Svezia da madre svedese e padre americano, ma sono cresciuta in Italia. Di conseguenza, il mio rapporto con le lingue risale a prima della mia nascita… Per me è sempre stato naturale saltare da una lingua all’altra e, perché no, mescolarle. Inoltre i libri sono stati una costante della mia esistenza. Tuttavia è stato solo all’università che ho capito di voler fare la traduttrice letteraria. Ruolo fondamentale per questa consapevolizzazione lo ha avuto Laura Cangemi, che qualche anno dopo è diventata la mia mentore. Ho studiato letteratura e lingua cinese, oltre a letterature nordiche, lingua danese e linguistica svedese, all’università, e da quando ho capito qual era la mia strada ho modellato i miei esami e il mio percorso sui miei interessi, che riguardano in primo luogo la letteratura infantile. Successivamente, mentre facevo la magistrale, ho partecipato al Seminario di traduzione di letteratura infantile dallo svedese all’italiano (sì, lo so, sembrava fatto apposta per me!) tenuto proprio da Laura Cangemi, nel corso del quale abbiamo tradotto a ventiquattro mani La gita di classe di Moni Nilsson, uscito per Qudulibri nel 2014. Alla terza edizione del seminario, invece abbiamo lavorato a sedici mani sui racconti di Astrid Lindgren che hanno poi dato vita alla raccolta Greta Grintosa, edito da Iperborea nel 2016. Da lì in poi ho lavorato come traduttrice editoriale a tempo pieno, e ho all’attivo diciannove libri editi e altri otto in cantiere nei prossimi due anni».
Quale difficoltà si incontrano nel tradurre un testo?
«Tante, tantissime. E molto diversificate. Rispettare lo stile è solo uno degli aspetti. Ma la parola fondamentale, come mi ha trasmesso Laura Cangemi, è il rispetto. Rispetto per lo scrittore, per l’opera originale, ma anche e forse sopratutto rispetto per il lettore e per la lingua di arrivo. Le difficoltà sono proprio legate al far vivere al lettore italiano le stesse sensazioni del lettore svedese, a farlo ragionare sugli stessi elementi, a lasciare in sospeso le stesse cose. Ovviamente fermo restando che ogni lettore vive un libro in relazione alla propria vita e alle proprie esperienze personali».
Qual è il suo rapporto con i libri, al di là del lavoro di traduttrice?
«Quando mi chiedono di descrivere la mia vita dico sempre che sono cresciuta “a pane e libri”. Ed è proprio questa la sensazione che ho ripensando alla mia infanzia. Ho imparato a leggere da sola a cinque anni, e il primissimo libro che ho letto in autonomia è stato Matilda di Roald Dahl, in svedese. Da lì in poi non mi sono mai fermata! Il primo giorno della terza media la nuova professoressa di italiano ci chiese cosa avevamo letto durante l’estate… Io ero seduta all’ultimo banco, e mentre i miei compagni dicevano i tre, quattro, cinque o anche dieci libri che avevano letto durante l’estate io cercavo disperatamente di ricordare. Cosa potevo aver letto, quasi tre mesi prima? Feci una lista sul quaderno, aggiungendo titolo dopo titolo, con la certezza che non sarei mai riuscita a ricordarli tutti. Quando fu il mio turno dissi “Credo quarantadue, ma potrei averne dimenticato qualcuno”. La professoressa non mi credette, e allora li elencai tutti, leggendo dai miei appunti. Quando citai, insieme a Se questo è un uomo di Primo Levi e al Diario di Anne Frank, anche nuovi classici della letteratura infantile come “Vampiretto” di Angela Sommer-Bodenburg, lei mi disse che quelli non contavano. Forse capii già lì che dovevo fare tutto quello che era in mio potere per restituire dignità alla letteratura per l’infanzia. Detto questo, non ho mai smesso di leggere anche se, come tutti i lettori, ho avuto momenti di stallo. Quando studiavo all’università, per esempio, leggevo talmente tante cose accademiche che nel tempo libero il massimo della letteratura che il mio cervello riusciva a sopportare era Twilight… Quando è nato il mio primo figlio leggevo tantissimo, perché allattavo ore e ore. Con la seconda, invece, non riuscivo a leggere quasi niente, perché mangiava in tre minuti e avevo il primo che voleva giocare. Però ho letto tanti, tantissimi albi illustrati! Ora, anche se i figli sono tre, leggo tutti i giorni. Ciò che traduco, libri che mi servono per tradurre, letteratura svedese e danese per le case editrici, libri per bambini ai cuccioli… Quel che mi manca sono i libri che scelgo io di pancia, solo perché mi vanno. Di quelli riesco a leggerne solo 1-2 al mese. Ops. Forse mi sono fatta prendere la mano con questa risposta… ma non ho mai avuto il dono della sintesi».
Quale autore o autrice vorrebbe tradurre?
«Devo dire che mi sono già tolta qualche bella soddisfazione, tra cui la mia amata Astrid Lindgren (con i racconti usciti per Iperborea) e Jessica Schiefauer, che adoro (di lei ho tradotto Girls per Feltrinelli, uno YA stupendo). Tra i mostri sacri con cui mi piacerebbe confrontarmi ci sono Tove Jansson, Maria Gripe e John Ajvide Lindqvist… Chissà cosa riserverà il futuro! Per adesso tutti i libri che ho in programma sono cose che mi piacciono molto e che in alcuni casi ho proposto io, quindi sono molto, molto contenta dei mesi che verranno. Tenete d’occhio il mio sito per le novità!».
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