Ne “La scelta di Sophie” Styron ha saputo creare, nell’avvallamento tra il vero e il reale, uno spazio sacro così violentemente accessibile da svuotarlo, in primo momento, di ogni sacralità. Il sacro ritorna dopo, quando cerchi di capire, quando cerchi di rimettere insieme i pezzi e di restaurare i cocci di un vaso che nessuno avrebbe dovuto neanche scalfire. Il ricordo della visione del film omonimo, a undici anni, e della lettura del romanzo, a ventun anni, durante il servizio militare…
Ero un ragazzino di dieci anni quando, una sera d’inverno, mia madre quasi mi “costrinse” a guardare un film in seconda serata su Rete 4. Cosa già abbastanza strana se si considera che a quell’ora i bambini dovrebbero già essere a nanna. Cosa ancora più strana se si pensa che il film in questione era La scelta di Sophie, tratto dall’omonimo romanzo (620 pagine, 8 euro), pubblicato negli Oscar Mondadori, di William Styron, a cui oggi vorrei dedicare queste quattro righe.
Pare infatti ci sia del sacro anche in lui, e in misura ben maggiore di quella che si potrebbe immaginare. Ma su questo torneremo più avanti; per ora attardiamoci ancora per qualche minuto alle suggestioni di quella lontana sera d’inverno, una stagione ideale per quella proiezione. Una stagione fredda, che ti accende dentro un gran desiderio di calore.
Un preludio di sapore liturgico
Non è questo certamente il primo caso in cui un’anima sia messa nelle condizioni di accedere al mondo della letteratura attraverso una pellicola di tutto rispetto. E sì. Quanti film hanno svolto un enorme servizio a chi, subito dopo, spinto da un demone buono, ha voluto cercare e cercare ancora! Ha voluto ritrovare certe scene non più sullo schermo, ma sulla pagina! Scene ritrovate e potenziate dall’immaginazione, dalla mediazione imprescindibile che accompagna ogni lettore nell’esercizio della sua costruzione personale.
Così avvenne anche per me, ma solo undici anni dopo. Quella sera, come già detto, ne avevo dieci. E vedevo mia madre sistemarsi in poltrona come se fosse l’ultima volta in cui si sarebbe seduta, e cioè cercando la “posizione definitiva”, quella che ti permette allo stesso momento il coefficiente più alto di comodità e il più alto grado di attenzione. Accese il televisore come una lampada votiva. Spense la luce del salotto come le ninfe di una chiesa quando comincia una veglia notturna. C’era del sacro. L’insieme dei gesti, i tratti seri sul volto di mia madre (che non erano quelli soliti di quando guardava un film), e tutta quella preparazione cominciata già nel pomeriggio («…Stasera fanno un film bellissimo, e lo vedremo assieme…»)… Insomma, tutte queste cose erano un rito, un preludio di sapore liturgico, profetico. Stava per succedere qualcosa di davvero importante. Ed io non sapevo cosa. Quindi stava per celebrarsi un Mysterion (un sacramentum): un incontro tra l’uomo e il trascendente, un segno visibile ed efficace della grazia.
La pubertà della coscienza
Ne sono convinto ancora oggi. Intendo: sono convinto che fu una grande occasione di grazia vedere quel film con mia madre. Rimasi un bambino di dieci anni anche dopo quel film, certo, ma quella sera fu come una specie di pubertà dell’anima e della ragione. La pubertà della coscienza.
«Per certe scene, si consiglia la visione del film a un pubblico di soli adulti».
L’annuncio del programma, dato con il viso sorridente da una donna in permanente e spalline tutte anni 80, era già un “programma” esso stesso… Chissà cosa mi attendeva… E chissà, soprattutto, che tipo di film mia mamma aveva intenzione di farmi vedere, se aveva così seriamente deciso di non avallare il consiglio dell’annunciatrice.
Un film dell’orrore! Pensai subito. Non avevo idea di quanto fosse vera la mia intuizione, anche se inclinata su un versante formalmente inesatto.
Ci fu la pubblicità dei panettoni, e poi tutto cominciò. E ricordo ancora la scena di un ragazzo seduto su un autobus molto vecchio, così diverso da quelli che vedevo nella mia città, in quegli anni. Il film si svolgeva negli Stati Uniti, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’anno era il 1947. E il ragazzo era un giovane scrittore che si spostava dalla Virginia a New York, dal profondo Sud al tentacolare Nord, con tutti i disagi del suo riconoscibilissimo accento, perché l’avevano assunto come correttore di bozze in una casa editrice.
Reinventarsi attraverso una storia inventata
Non sapevo ancora, né avrei saputo per molti anni, che quell’incipit rappresentava l’impronta autobiografica dell’autore della storia, che in questo modo descriveva anche la sua personale esperienza. E come spesso accade in un romanzo, la faceva misteriosamente collidere con dei fatti inventati, tratti dalla sua immaginazione. Come se a un autore non bastasse inventare una storia, ma gli fosse necessario reinventarsi attraverso di essa. Prenderne parte, e non solo come comparsa.
Esattamente come poi ebbi modo di constatare leggendo il libro, anche nel film tutto veniva raccontato in soggettiva. Stingo, il ragazzo di cui sopra, raccontava ciò che vedeva, ciò che sentiva. Raccontava, cioè, in una maniera tale da non vincolare nessuno all’interpretazione autentica degli eventi: ciò che egli riceveva dalle confessioni degli altri personaggi veniva irrimediabilmente mediato dai suoi stessi sentimenti, dalla sua sensibilità, dal suo modo di “immaginare” come potesse essersi ridotto il cuore di chi gli rivelava certe cose. Utilizzando questo sistema, St[yron]ingo faceva sì che ogni spettatore potesse sentirsi assolutamente autorizzato a far sua la storia, e caderci dentro, a leggerla con i propri parametri di sentimento e di senso.
Insomma, un po’ come avviene con certi film horror in cui tutte le scene vengono riprese da una telecamera, e tu partecipi agli eventi esattamente come vi partecipa chi sta girando il film. E quando senti l’urlo e tutto si appanna, e capisci che la telecamera è caduta a terra e il videomaker è morto brutalmente, allora comprendi che la stessa cosa sarebbe potuta accadere a te. Ecco l’orrore.
Stagioni della Storia consumate in atrocità
Ma qui tutto ciò è sostenuto da una maggiore forza, perché non si parla di streghe nascoste in boschi remoti, ma di stagioni della Storia che si sono realmente consumate in atrocità che non possono essere descritte se non ci si è passati dentro con tutto il proprio corpo, con tutta la mente, con tutto il cuore e le forze. Styron lo sapeva bene. Credo avesse voluto rispettare con grandissima nobiltà d’animo i sentimenti di chi certe cose le aveva vissute realmente, e non avesse permesso a se stesso, neanche per un istante, di giovarsi del privilegio dello scrittore, che può far finta di essere uno dei suoi stessi personaggi, e di descrivere alcuni elementi emotivi come se li avesse davvero sperimentati in prima persona.
No. Styron non lo fa. Non oltrepassa mai lo spazio sacro che si interpone tra lui e i suoi personaggi (irreali rispetto alla realtà, veri rispetto alla Storia umana); non si concede il lusso di improvvisarsi reduce di un incubo in cui la sopravvivenza è stata un lascito peggiore della morte. Non lo fa. Semplicemente. Gli raccontano certi fatti, e lui li riporta quasi come un cronista, annotando i segni che – come scorie indelebili – sono rimasti sul volto di chi lo rende partecipe delle proprie memorie. In questo modo lui può solo prestare la voce ai suoi personaggi e farci intendere, come lui stesso ha inteso, quanto terrificante sia l’incubo di un ricordo, ricalcando bene un concetto: il ricordo di questo terrore appartiene solo a chi l’ha sperimentato; tu guardalo da lontano, con grande rispetto, senza pretendere di poterlo capire, perché è impossibile.
Abbracciai mia madre piangendo quando giunse quella scena, quei pochi minuti di flashback che finalmente ti danno ragione del titolo. La abbracciai perché non capivo, perché non credevo che davvero certe cose sarebbero potute accadere realmente; e ricordo che la abbracciai anche perché, in quel momento, volevo rassicurarla che a lei, ciò che stavamo vedendo su quello schermo, non sarebbe mai accaduto! Mai!
Paura senza timori
Perché mi fece vedere questo film? Perché volle sobbarcarsi la responsabilità morale di permettere ad un bambino di dieci anni l’incontro con uno scandalo storico di così incontenibile portata? Forse, mi dico oggi, perché il contatto con lei, su quella poltrona, mi avrebbe dato un’idea quanto più chiara possibile di ciò che si raccontava. Cioè, mi fece capire che ciò su cui ogni giorno potevo contare, e cioè l’affetto dei miei genitori, la scuola, i pasti e le pulizia delle mie lenzuola, tutto ciò non era scontato. Me lo fece capire così, proprio mentre implicitamente mi spiegava che quell’abbraccio tra me e lei era stato negato ad altri, nella più feroce delle formule.
L’orrore, quando lo incontri da solo, ti impietrisce impedendo ogni reazione dello spirito. Quando lo incontri tenendo stretta la mano di chi ti ama, allora impari ad avere paura senza però avere timore, perché ti senti protetto. Quell’orrore fu così. Fu conosciuto per ciò che era stato, e per ciò che avrebbe potuto essere se gli uomini, ancora, avessero commesso certi sbagli. In questo, certamente, l’intento pedagogico di mia madre. Pedagogicamente giusto, sbagliato? Non lo so e detto tra noi non me ne frega assolutamente niente. Senz’altro produsse un’efficacia. Volle mostrarmi ciò di cui mi avrebbero parlato a scuola, e volle farlo proprio a partire dal suo punto di vista, quello di una madre a cui nessuno potrebbe mai imporre una scelta come quella descritta in quel film.
Alla fine mi sentii piccolo piccolo, e non solo per i miei dieci anni. Mi sentii piccolo in quanto uomo, in quanto essere umano, in quanto appartenente alla stessa “…razza…” di chi aveva distrutto la vita di Sophie, la protagonista. Mi sentii in qualche modo corresponsabile, e ricordo che questo sentimento lo masticavo con una fame diversa da quella tipica e indeterminata del senso di colpa: era una corresponsabilità razionale, autocosciente: «Quell’ufficiale ha avuto anche lui dieci anni come me, quand’era piccolo… Io potrei diventare come lui, da grande?»
Leggendo sotto un barlume insicuro
La domanda si ripresentò, in modo più puntuale, undici anni dopo. Durante il servizio di leva.
Non ero un ufficiale, ma la divisa addosso ce l’avevo lo stesso. E questo fece sì che la mia lettura del libro più significativo di Styron arrivasse alla mia coscienza con un plusvalore che non avevo affatto considerato.
Portai il libro con me, in caserma. Lo lessi durante le mie ore notturne di piantone, in inverno, al freddo, quando vorresti essere sulla tua brandina e invece devi solo fare avanti e indietro, lungo tutto il corridoio, e non puoi assolutamente leggere altrimenti vìoli la consegna. Quindi non ditelo a nessuno.
Il corridoio della compagnia armi di sostegno era tutto buio, se non per una luce gialla di cortesia all’ingresso, che certamente non era stata pensata per le letture. Mi mettevo lì, ricordo, sotto quel barlume insicuro come me, pronto a nascondere il libro dietro il porta-asta della bandiera qualora avessi sentito i passi dell’ufficiale di picchetto salire su per le scale. Lo sguardo vicinissimo a quelle lettere così piccole (maledette edizioni economiche, dove per forza devono far entrare tutto in trecento pagine!!) e un persistente fastidio agli occhi, che dovevano sostenere uno sforzo immane. Nondimeno, nulla riusciva a staccarmi da quella lettura. Le pagine divoravano le pagine, alternando scene a scene, tutte diverse, fino a che non si arrivò a quella. Proprio quella. Quella di cui ovviamente non dirò nulla, a differenza di molte recensioni che ho trovato su internet. Vergognatevi! Voi che con le vostre immorali anticipazioni (ancora più immorali se chiamate “spoiler”) uccidete le sorprese di un possibile lettore, facendo a pezzi, con una frase, una scena per cui magari uno scrittore ha lavorato dei mesi! Siete come chi pratica degli aborti. Consegnate ai lettori un figlio morto e incompiuto, ma pur sempre un figlio, che avrebbe meritato di crescere a poco a poco!
Perdonate lo sfogo. No. Non dirò nulla. Se non che il libro, ovviamente, fu meglio (peggio) del film, perché lì la scena dovetti crearmela io, senza sconti di regia.
Ancora oggi provo ad immaginare cosa possa aver sperimentato Styron quando, dopo tre romanzi già abbastanza carichi di impegno e di forti emozioni, dovette trovarsi tra le mani quest’ultimo parto. Chissà cosa provò lui, per primo, nel rileggere quella scena. Chissà se si sia mai sentito sfiorare dal sospetto che la sua capacità descrittiva avrebbe consegnato qualcosa di così vicino al reale da sembrare vero, facendoti capire che vero lo ero stato realmente! Solo che, come detto prima, lo capisci solo dopo.
Styron ha saputo creare, nell’avvallamento tra il vero e il reale, uno spazio sacro così violentemente accessibile da svuotarlo, in primo momento, di ogni sacralità. Il sacro ritorna dopo, quando cerchi di capire, quando cerchi di rimettere insieme i pezzi e di restaurare i cocci di un vaso che nessuno avrebbe dovuto neanche scalfire. Questo vaso è il cuore di Sophie. Il cuore di una madre. Come la mia, che dopo quella sera di tanti anni fa amai ancora di più. Per il resto, se non avete né visto il film né letto il libro, la “scelta” non sarà difficile: comprateli entrambi. Anche perché Meryl Streep merita sempre e comunque, e il “diavolo” vestito Prada non è l’unico con cui uno dei suoi personaggi si sia dovuto confrontare.
Ne esistono di peggiori. Che di sacro non hanno nulla, e fanno solo schifo.