Una bimba che non legge e poi “Marcovaldo” di Italo Calvino a… illuminarla. Non favole moderne quelle che hanno come protagonista Marcovaldo, ma la metafora dell’uomo che si allontana dall’anima del mondo in nome di un iperbolico consumismo e, quindi, da se stesso, dalle proprie aspirazioni, dai propri desideri…
Ebbene, lo confesso! Quand’ero bambina leggere mi annoiava… e non poco! A differenza di mia sorella, che divorava pagine su pagine, io, che già dovevo stare tanto sui libri per via della scuola, vivevo la dimensione della lettura tutt’altro che come un passatempo! E a nulla servivano gli inviti di mio padre, le raccomandazioni della maestra o il confronto con i compagni (e la sorella) assetati di libri: per me vacatio, fatta eccezione per l’obbligo degli odiosissimi compiti per le vacanze, faceva rima con mare, giochi e zapping in tv… almeno finché in un giorno qualunque di scuola media non arrivò un certo Marcovaldo ad illuminarmi!
La scintilla
Era stata proprio la mia insegnante di Lettere delle scuole medie a farci leggere dal libro di Antologia qualche pagina che narrava le vicende di questo buffo signore. Devo ammettere che, fin dal primo incontro, tra me e il signor Marcovaldo si instaurò una certa intesa, forse più una strana forma di curiosità, uno scrutarsi per capire che tipo di vita trascorressero davvero lui e la sua famiglia e se, in fondo, la mia vita non fosse poi così diversa dalla loro.
Non ricordo quando scattò esattamente la scintilla, ma credo sia stato quando scoprii che anche i suoi bambini, non potendo, come me, andare in vacanza, si sforzavano di guardare le stelle d’estate dal terrazzo di casa, scoprendo forse per la prima volta il sentimento della tristezza di (allora chiaramente non lo sapevo ancora!) leopardiana evocazione.
Così, quando la prof di Lettere (del Ginnasio stavolta) ci diede come compito per le vacanze di leggere almeno sette libri tra i titoli da lei indicati, poiché tra questi ce n’erano diversi di Calvino, scelsi di ingoiare l’amara pillola usando come zuccherino consolatorio proprio Marcovaldo.
Lo acquistai in una piccola libreria vicino a casa: un Oscar Mondadori, cui ne seguirono molti altri e che custodisco ancora oggi più che gelosamente. E che, di tanto in tanto, ripesco, riapro e rileggo. E ogni volta me ne scopro innamorata come la prima volta e ancora e ancora di più.
Visionario e lungimirante
Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (141 pagine, 12 euro) è un testo che non smette mai di stupirmi e di insegnarmi. Un testo ipermoderno, visionario, lungimirante, che addirittura definirei scandaloso per il modo in cui riesce a raffigurare con una tanto pungente, quanto triste ironia la solitudine e la resa dell’uomo industriale post bellico. Forse anche perché Marcovaldo a me ricorda tanto mio padre e tutti quegli uomini che si sono trovati a fare i conti con un mondo in forte mutazione.
Marcovaldo è un uomo semplice, onesto, ingenuo, un lavoratore e un padre di famiglia che cerca di interpretare a suo modo il proprio ruolo sociale e le novità e gli adattamenti che esso impone; è un uomo che vive con pudore, quasi con vergogna, le proprie attese e che finisce sempre per abdicare ai propri sogni perché in una vita come la sua per questi spazio non ce n’è. È un uomo solo Marcovaldo, un uomo solitario e melanconico che, tra il grigiore dell’asfalto e del cemento della città in cui campa, va sconsolatamente in cerca della natura. E della verità. Le troverà: entrambe compromesse, entrambe contraffatte, entrambe inficiate.
Il decadimento dell’uomo post moderno
Sbaglierà chi, leggendo qua e là che Marcovaldo è il protagonista d’una serie di favole moderne, lo relegherà a un libro per ragazzi. Nelle sue avventure (cinque per ogni stagione dell’anno: ecco spiegata la ragione del sottotitolo) il suo autore, Italo Calvino, individua avvenimenti minimi, quasi insignificanti e praticamente impercettibili nel caos della vita di una grande città industriale, rispetto al cui rapporto «l’uomo comune» inizierà un lento declino. Attraverso le vicende di questo «Fortunello contemporaneo, un Bonaventura all’incontrario, un Pampurio dei caseggiati popolari», come lo stesso Calvino lo definì, vediamo raccontato il decadimento dell’uomo post moderno, il suo allontanarsi dall’anima del mondo in nome di un iperbolico consumismo e, quindi, da se stesso, dalle proprie aspirazioni, dai propri desideri, tuttavia schiacciato dal paradosso di una realtà che inneggia all’American Dream. Personalmente non stenterei a definire quella di Marcovaldo una rappresentazione dell’alba di molti disturbi dell’uomo contemporaneo.
Nel tempo Marcovaldo mi ha fatto sempre più spesso pensare alle storie descritte nelle canzoni di Rino Gaetano: forse per il tono e l’atteggiamento tra il comico e il sarcastico, forse per il neorealismo che esprimono, forse per la loro capacità di vaticinare i tempi che oggi stiamo attraversando.
Le ragioni per (ri)leggerlo
Quindi, se proprio devo consigliare un libro per l’estate, vorrei rivolgermi a chi, come me venticinque e più anni fa, sbuffava all’idea di sedersi a leggere qualcosa in vacanza, suggerendogli di avvicinarsi proprio a questo libro di Calvino perché:
solo a vederlo non incute timore: in fondo alla vista non sono che poche, piccole «paginette»;
il tono apparentemente scanzonato e leggero non vi farà percepire il peso dei fogli che si susseguono;
la sua struttura, divisa (come già accennato) per stagioni, vi darà la possibilità di leggere anche “saltando”, quasi come fosse un libro ad episodi, ma col vantaggio che ogni storia nasce e si conclude in sé (chissà che poi, come un gustoso pacco di caramelle, una non tiri l’altra?!?);
quando arriverete alla fine, quasi senza accorgervene, vi troverete catapultati, senza troppi sensazionalismi ma con estrema lucidità, dentro un mondo di considerazioni che, sebbene possano far male, sarebbe necessario maturare e far maturare per essere, oggi più che mai, cittadini consapevoli e uomini (perché no?!?) un po’ più liberi.
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