Bisogno intimo e atto politico convivono nel debutto di Jonathan Bazzi, “Febbre”: un romanzo autobiografico in cui la scrittura cura certe ferite, a cominciare da un’infanzia vissuta da invisibile. L’omosessualità, la scoperta della sieropositività, la vita che costringe a fare i conti con la realtà, sono solo alcune delle tappe da affrontare per imparare a conoscersi…
Per Jonathan Bazzi scrivere il romanzo d’esordio, in gran parte autobiografico, Febbre (326 pagine, 18, 50 euro) è stato allo stesso tempo un bisogno intimo e un atto politico. La casa editrice Fandango che lo ha pubblicato ha intuito la funzione morale e sociale di un libro che ha il grande pregio di liberare il lettore dai pregiudizi nei confronti dei sieropositivi. Leggere, pertanto, diventa un atto politico in sé, come scrivere: lo stesso autore afferma che le persone sono soprattutto il loro prendere posizione rispetto a circostanze, fatti e vissuti.
Uno stato quasi catatonico
Jonathan ha poco più di trent’anni, vive a Milano con il compagno Marius, frequenta la facoltà di Filosofia e si mantiene insegnando yoga. Ben presto, 37 diventa un numero ossessivo: la linea sotto la quale non scenderà più la sua temperatura corporea, «il confine, lo spartiacque – tra quello che ero e quello che sono». Una stupida febbricola di cui non si comprende la causa, non subito almeno, e che lo fa sprofondare in uno stato quasi catatonico. Tenta di reagire continuando a trascinare il suo corpo alle lezioni di yoga, sebbene da diverse settimane la stanchezza e la fatica non lo abbandonino, al punto che anche mangiare richiede uno sforzo eccessivo. Vuole solo dormire, dimenticare il suo malessere, il suo corpo madido di sudore. La sua testa, però, diventa un vortice di idee e pensieri pessimistici: crede di essere vicino alla morte a causa di una malattia che non ha ancora scoperto, ma che pian piano lo isola e lo catapulta in quella dimensione che segna la linea di demarcazione tra i malati e i non malati, fino a quando non scopre di essere sieropositivo.
Trasformare la malattia in opportunità
Una scoperta che diventa una vera e propria catarsi, ovvero la liberazione dell’anima dall’irrazionale, dai conflitti interiori e dallo stato di ansia in cui si era riversato. Attraverso la scrittura, l’autore cerca di restituire le impressioni, gli stati d’animo e i dubbi che hanno preceduto e poi accompagnato la scoperta del virus. Ciò che sorprende è la reazione di Jonathan a tale scoperta che avrebbe sconvolto chiunque, ma non lui che riesce a trasformare la malattia in opportunità: affronta il dolore, lo attraversa da parte a parte, lo riduce in frammenti con le parole. Sceglie di essere un sieropositivo che si lascia individuare, che non teme di raccontare come si convive con l’HIV e non ha paura di mostrare la propria fragilità.
Una periferia come carta d’identità
«Col virus voglio farci qualcosa, agire su di lui, modificarlo, non essere inerme, subirlo – mi interessano sole le cose con cui posso imparare. Scriverne, per esempio, sfruttando la mia condizione di privilegiato, di contaminato che non prova vergogna. Rinominare quello che mi è successo, appropriarmene con le parole, per imparare, vedere di più: usare la diagnosi per esplorare ciò che viene taciuto. Darle uno scopo, non lasciarla ammuffire nel ripostiglio delle cose sbagliate»
Febbre, però, è anche altro. È il racconto di un’adolescenza trascorsa a Rozzano, una delle periferie più difficili di Milano, «il Bronx del Nord: il paese dei tossici, degli operai, degli spacciatori. I tamarri, i delinquenti, la gente seguita dagli assistenti sociali». È nelle periferie che si trovano i problemi della città: povertà, disoccupazione, ambiente degradato, delinquenza, violenza. Nascere e crescere in questi luoghi può diventare una condanna, una punizione per una colpa che non si sa bene quale sia. «Rozzano mi odia. Rozzano l’ho odiata», scrive Bazzi che racconta la difficoltà di vivere l’omosessualità in un contesto chiuso, complicato; il timore di ritrovarsi solo e di non essere accettato; il terrore di essere invisibile, non solo in una realtà più vasta come può essere un quartiere, ma anche all’interno della propria famiglia, anch’essa stigmatizzata. Non è un’infanzia serena quella di Jonathan: con genitori separati, è cresciuto con i nonni e gli zii in una periferia che diventa la sua carta d’identità («ho Rozzano incastrata nel nome, se parlo di me devo parlare di lei»).
Rifiuto di crescere e desiderio di affrancarsi
«Ai bambini invisibili», è tutto racchiuso nella dedica del romanzo che si legge nella primissima pagina del libro. In tutta la sua esistenza, infatti, deve fare i conti con la voglia e il desiderio di essere altro, ma soprattutto con la difficoltà di convivere con il giudizio di chi lo vuole «altro», diverso: per il padre è Desireè, la figlia che non è nata; per i nonni è Antonio, il nipote che si sarebbe fatto rispettare. Febbre è anche la storia di una famiglia che conosce la violenza e, in mezzo a tanti egoismi, dimentica la fragilità di un bambino che convive con la consapevolezza di essere invisibile, persino per la madre verso la quale nutre un rapporto quasi di dipendenza, mentale più che fisica, che ostacola le tappe del suo percorso verso l’autonomia. Ancora di più per il padre. Si potrebbe, forse, parlare di un’infanzia negata, vissuta tra il rifiuto di crescere (Jonathan, per esempio, usa il biberon fino a 10 anni; va in bicicletta con le rotelle fino a 12 anni) e il desiderio di affrancarsi ed emanciparsi dagli affetti che, con la loro “non presenza”, sono diventati fin troppo ingombranti, provocando delle ferite insanabili.
Una sorta di crocevia esistenziale
Con una scrittura dolce e allo stesso tempo severa e un linguaggio mai ricercato ma schietto e spontaneo, Bazzi regala una sensazione di profonda intimità alle sue pagine, che contengono ampie e appassionate riflessioni sulla sessualità e sulle relazioni interpersonali ai tempi dei social. Ciò che viene fuori è un libro che racchiude l’origine di tutto ciò che Jonathan è stato ed è: una sorta di crocevia esistenziale in cui si incastrano diversi tasselli, tante micro-storie legate assieme da un filo autobiografico. È chiara la presa di coscienza dell’autore, consapevole che la vita costringe a rinunciare agli ideali e fare i conti con la realtà che, nel suo caso, vuol dire affrontare una malattia che stravolge non solo il corpo, ma anche l’anima a causa dell’idea della morte che irrompe prepotente. Attraverso la malattia, però, Bazzi sembra imparare a conoscersi, a comprendere quel connubio uomini- male che nasconde radici profonde, radici nel cosiddetto «non amore», la patologia che forse più teme e lo ha fatto soffrire. «La ferita dei non amati non si rimargina più?», si e ci chiede nelle ultime pagine. Forse non saremo in grado di dare una risposta, ma per un profondo senso di giustizia l’autore vuole che «tutti sappiano la verità», fatta di storie ed esperienze di cui è stato testimone intimo e privilegiato. Storie in cui affiora la durezza conosciuta fin da piccolo tra le mura domestiche. Ecco che la scrittura diventa la cura.
Un potentissimo esordio quello di Bazzi, non v’è dubbio: attraverso le parole è riuscito a svestirsi del mantello dell’invisibilità e a ritrovare il suo posto nel mondo, a dare uno scopo a ciò che gli è accaduto: fare in modo che gli altri, i «non malati», capiscano che «i sieropositivi sono ovunque, schiera sommersa, silenziosa. E vi stanno a guardare».
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