Intervista a Jonathan Bazzi, autore di “Febbre”, che racconta il senso della sua scrittura (“Vorrei fosse al centro delle mie giornate”), le origini a Rozzano (“Una specie di commedia umana”) e la genesi del suo primo romanzo: “Avevo la sensazione di appartenere a dei mondi non visti o fraintesi, e quindi interessanti da raccontare. Sono stato smodatamente alla ricerca dell’amore e questo mi ha messo in pericolo. Si parla ancora poco di Hiv, ci sono ancora pregiudizi e superstizione ma…”
«Ho l’HIV e per proteggermi vi racconterò tutto». Da Rozzano a Milano, dal rapporto con la famiglia, il compagno e gli amici, dalla febbre alla scoperta della sieropositività, Jonathan Bazzi autore di Febbre (ne scriviamo qui), pubblicato da Fandango Libri editore, si racconta a tutto tondo nel suo primo romanzo, che si aggiudica anche la candidatura al Premio Berto, che sarà assegnato sabato. Un memoir dal forte impatto emotivo e sociale che grazie alla sofisticata scrittura tagliente, consapevole e fluida (capace di spiazzare molti suoi colleghi scrittori, veterani del settore) racconta la personale esperienza con l’HIV. Febbre è un romanzo politico perché di sieropositività oggi si parla poco e in modo superficiale: «Essere sieropositivi dichiarati significa non rispettare la legge non scritta secondo la quale tacere è necessario, più sicuro. Oggi manca ancora la tranquillità e la visibilità, manca la possibilità di inserire l’HIV come uno dei tanti elementi possibili che plasmano un’identità».
Bazzi, Febbre è un libro dirompente. Assume una forza incredibile se si pensa che a scriverlo sia un esordiente. Quando nasce la necessità di mettere tutto nero su bianco?
«Febbre ha avuto una gestazione abbastanza travagliata, a più fasi. All’inizio, diversi anni fa, ancora prima di scoprirmi sieropositivo, avevo in mente di scrivere un libro su Rozzano, solo su Rozzano. Sulla mia infanzia in quel luogo, sulla sua gente, sulle sue forme, la sua atmosfera. Poi, dopo il 2016, ho deciso che queste due presenze della mia vita – Rozzano e l’HIV – avevano qualcosa in comune, in qualche modo dialogavano tra loro. Così le ho tenute insieme, attraverso la struttura a capitoli alternati. Febbre nasce dal bisogno di far sapere com’è, com’è stato attraversare quelle dimensioni. L’ho scritto per impossessarmi, far mie, le cose che mi sono successe. Per accettare di essere rozzanese e sieropositivo, ma a modo mio. In un modo non passivo, ma attivo, ri-creativo. Avevo la sensazione di appartenere a dei mondi non visti o fraintesi, e quindi interessanti da raccontare».
Parlami della copertina del libro che da subito mi ha incuriosita …
«È un’illustrazione di Elisa Seitzinger, una giovane e talentuosissima artista torinese amante dell’immaginario medievale (sante, martiri, animali fantastici). Esisteva già, non è stata creata apposta per il libro. L’ho vista la prima volta credo due o tre anni fa. Quando ho finito di scrivere il libro e abbiamo iniziato a pensare alle varie questioni legate alla pubblicazione ho avuto la fortuna (inusuale per un autore, soprattutto se esordiente) di poter partecipare al processo decisionale per la scelta della copertina. Ho proposto l’illustrazione di Elisa a Fandango e loro l’hanno accettata subito. All’inizio pensavo di averla scelta semplicemente perché mi piaceva e mi sentivo rappresentato da quest’immagine, poi ho capito che c’è un legame chiaro col movimento di fondo di Febbre. La mano offre uno sguardo, un punto di vista, porge una testimonianza: ecco quello che ho visto. O ancora meglio: ecco come ho visto le cose che ho visto».
Rozzano, città al centro del tuo romanzo, descritta in modo rude, abitata da immigrati, per lo più, disoccupati, la tua stessa famiglia faceva parte dell’ambiente che però, come hai detto durante una presentazione, «non riconoscevano le tue esigenze», ossia quelle dei libri e della lettura. Come sei riuscito a non adeguarti. A resistere?
«Da un certo punto di vista è stato inevitabile: ero un bambino molto asociale. Non amavo stare con gli altri bambini, avevo paura di loro. Non ho avuto amici fino ai sedici anni. Rozzano per me è stata una specie di spettacolo, di commedia umana che a volte mi divertiva, altre volte mi angosciava. In questa mia solitudine ho poi sempre dato ascolto ai miei desideri: non è stato sempre immediato, né lineare, ma ho preso molto sul serio le mie vocazioni. Nelle mie tante digressioni e nei miei esperimenti credo, alla fine, di essere stato piuttosto coerente. Sapevo di appartenere ad altro, o quantomeno anche ad altro».
Sei più tornato a Rozzano? Che impressione hai oggi di quella città che ti ha visto crescere? Se fossi rimasto a Rozzano chi sarebbe diventato Jonathan Bazzi?
«Torno spesso a Rozzano, molti miei parenti sono ancora lì. Mia madre e mia sorella, per esempio. Oggi Rozzano mi affascina: adesso che non sono più obbligato a starci, il mio sguardo liberato ha maturato sentimenti quasi positivi, di curiosità, verso quei palazzoni popolari. È un luogo strano, molto diverso da Milano, anche se i chilometri di distanza sono pochi. Tornando alla tua domanda però no, non sarei mai rimasto a Rozzano, quello non era il mio posto. Credo ci siano persone che nascono in un posto proprio per allontanarsene, per marcare uno scarto, o abbozzare ponti. Per vedere, registrare, imparare, e andare altrove».
I protagonisti maschili del tuo romanzo, il padre, il futuro compagno della madre, il nonno, emergono come soggetti violenti, irriflessivi e traditori a differenza del mondo femminile che, sebbene succube di un sistema patriarcale, resta comunque forte e determinato. Che famiglia hai descritto?
«Credo una famiglia non così eccezionale dopotutto. Ahimè le forme striscianti, subdole, del patriarcato sono ancora oggi imperanti. E le stesse violenze domestiche come sappiamo non sono certo scomparse. Mi interessava in particolare raccontare la violenza assistita, ovvero la violenza a cui i minori assistono, da testimoni impotenti: un tema di cui si parla poco e in modo superficiale. I bambini che vivono in famiglie difficili – anche solo in senso comunicativo o psicologico – porteranno per sempre i segni di quel regime. La dedica ai bambini invisibili arriva da qui. Per me questo è anche un libro sulle gerarchie di genere, sui rapporti disfunzionali e abusanti che la famiglia tradizionale troppo spesso ospita e legittima».
Quando scopri di essere sieropositivo è il 2016. La diagnosi giunge in seguito a esami, cure palliative e settimane di malessere, spossatezza e febbri persistenti. HIV: scopri la causa e dici di sentirti sollevato. Sollevato. Perché proprio questo termine?
«Perché dopo settimane di febbre inspiegabile mi ero infilato in un tunnel ipocondriaco. Pensavo di avere un tumore del sangue, un linfoma, la leucemia. Con la diagnosi ho capito che non era così. Di HIV oggi non si muore più, sapevo che era in qualche modo il male minore. Ho capito che non sarei morto e in quella situazione per me era tutto. Anche se poi, come racconto nel libro, passato questo senso di scampato pericolo, il mio corpo ha iniziato a manifestare dell’altro, dando vita a una nuova spirale di presentimenti e paure».
«Ho sempre pensato che l’amore mi avrebbe difeso, che fosse la miglior forma di protezione. Pensavo che dall’amore non potesse venir niente di male. Sortilegio, conversione alchemica: al male eventuale l’amore cambia di segno. Lo ingloba, lo riassume in sé, ammaestrandolo, rendendolo parte del cerchio magico». Sei rimasto deluso dall’amore?
«No, affatto, sono stato però smodatamente alla ricerca dell’amore. E credo che questo a volte mi abbia messo in pericolo. Dal punto di vista emotivo ma anche dal punto di vista della salute sessuale. Ad esempio ho accettato di correre dei rischi perché la persona con cui stavo uscendo mi piaceva molto e desideravo avvicinarmi il più possibile, e il più a lungo possibile. Sono stato un fondamentalista dell’amore, un romantico radicale. Mi riferisco a questo nel passo che hai citato».
Nel tuo romanzo parli del rapporto con il tuo compagno, Marius, che con te ha vissuto il periodo delle visite, degli interrogativi sulla malattia, poi della malattia. Da allora è cambiato il vostro rapporto?
«Tutti i rapporti cambiano nel corso del tempo. In ogni caso siamo posso dire che l’HIV non ha influito in modo rilevante sulla nostra storia».
A cosa è dovuta la scelta di mantenere nel romanzo i nomi reali dei soggetti e dei luoghi?
«Questo è un libro che si basa sull’autoesposizione ma anche sul rifiuto della cultura dell’omertà, del pudore, della vergogna. Per me era importante, anche come forma di riparazione verso le vittime, descrivere nel modo più preciso possibile, chiamando le cose e le persone col loro nome. Molti autori scrivono libri autobiografici travestiti da fiction, limitandosi appunto a cambiare i nomi e l’ambientazione. È una scelta che comprendo poco. Il valore letterario di un libro non credo sia dato dall’essere frutto di invenzione o meno: penso sia lo sguardo, lo stile, a fare la differenza».
In seguito alla pubblicazione di Febbre, andando in giro per l’Italia a presentare il libro, secondo te che opinione c’è oggi dell’HIV?
«C’è silenzio, se ne parla poco, e nel silenzio, nell’assenza di narrazioni e modelli aggiornati, l’immaginario non può che restare fermo ai decenni passati. I pregiudizi, la superstizione e il bisogno dei capri espiatori sono tutte cose ancora molto frequenti. Per fortuna però c’è anche una parte di popolazione sensibile e curiosa che, trovandosi di fronte a qualcuno che racconta e ci mette la faccia, coglie l’occasione, e inizia a parlarne, a condividere».
Che significa essere sieropositivi dichiarati? Cos’è che manca alla nostra società?
«Essere sieropositivi dichiarati significa non rispettare la legge non scritta secondo la quale tacere è necessario, più sicuro. Oggi manca ancora la tranquillità e la visibilità, manca la possibilità di inserire l’HIV come uno dei tanti elementi possibili che plasmano un’identità. Mancano le narrazioni in prima persona da parte dei sieropositivi: le persone con HIV vengono sempre raccontate dai sieronegativi, con tutto un apparato linguistico ed estetico standard che – consapevolmente o meno – continua ad alimentare lo stigma, la tensione emotiva. Liberazione per me significa moltiplicare i punti di vista, essere liberi di parlarne come si vuole, anche con ironia, anche al di là delle campagne di sensibilizzazione».
La letteratura, i libri ti hanno portato fuori Rozzano, ti hanno permesso di ripercorrere la tua vita e metterla nero su bianco. Che posto occupano nella tua vita, libri e letteratura?
«Ho un rapporto molto intimo col linguaggio. A tratti morboso. Credo sia il mio modo di agire nel mondo. La forma di azione più nelle mie corde, a volte l’unica che mi risulta accessibile. Raccontare una cosa per me significa portarla a un livello di esistenza in cui esisto di più, che sento di poter abitare meglio. I libri, già dall’infanzia a Rozzano, mi hanno aiutato ad anticipare gli spostamenti che avrei voluto compiere e che non mi era possibile compiere. Non si tratta, non si è trattato di un hobby, di un passatempo. Mi hanno teso la mano».
Cosa ti aspetti dal futuro, oltre a voler vincere il Premio Berto, intendo?
«Vorrei che la scrittura fosse al centro delle mie giornate».