Le telefonate di alcuni ascoltatori a un programma radiofonico e le vicende del conduttore, che prova a evadere dalla propria vita con un viaggio, scandiscono “Effetto notte”, romanzo di Pierre Lepori, dalla trama impalpabile e persistente e con un linguaggio nitido e allusivo al contempo. Tra necessità di raccontarsi e una visione della società occidentale fatta di solitudine e insoddisfazione
Chi racconta di sé senza esserne richiesto si attende di solito un conforto, una qualche assoluzione o un pollice in alto di narcisistica conferma. Non è a questo però che mirano gli anonimi personaggi del libro di Pierre Lepori, Effetto notte (93 pagine, 13 euro), edito da Effigie, quando telefonano ad Alessandro, conduttore di un programma radiofonico notturno, per parlare in diretta di sé senza essere guidati, commentati o… spiegati. Il lettore si trova così di fronte a tredici narrazioni-riflessioni che hanno in comune la misura standard di circa una pagina e mezza, con alla fine l’indicazione di un brano musicale. Brani diversissimi (Schubert, Loredana Bertè, Satie, Lhasa De Sela, Händel, Claudio Lolli, Hozier…) come eterogenee appaiono le fisionomie socio-culturali di chi telefona, e differenti sono i registri emotivi e gli atteggiamenti di fronte a ciò di cui parla: ironia, perplessità, rassegnazione, entusiasmo, rimpianto… In questa gamma variegata di tonalità e di esperienze (per gran parte) comuni o (raramente) eccezionali, emerge tuttavia la necessità collettiva del raccontarsi a qualcuno che semplicemente ascolti, una necessità fine a sé stessa si direbbe o, meglio, un atto indispensabile per rendere esistente la… cosa di cui si sta parlando e poterla così riconoscere, farla esistere insomma (e riconoscersi ed esistere insieme a lei) esattamente nel momento e nel modo in cui la si dice.
Un malessere inspiegabile e le persone importanti
Alle telefonate dei personaggi, nelle pagine del libro si alternano in una scansione (quasi) regolare, le vicende di Alessandro che, spinto da un malessere improvviso e inspiegabile, decide di allontanarsi per alcune settimane dal lavoro e, più in generale, dalla forma (nell’accezione pirandelliana) che ha assunto la sua esistenza. Dopo un colloquio col proprio capo, lo vediamo perciò su un aereo, poi raggiungere una grande città (non ci viene detto quale) del Nuovo Continente, dove ha prenotato un appartamento con una stanza di troppo e una grande finestra. Ale, come finisce per chiamarlo la voce narrante, esce svogliatamente, si ingozza di junk food, va in giro senza meta, preferendo tragitti in metropolitana fino ai capolinea di periferia, o raggiunge grattacieli da cui osservare la città dall’alto. L’incontro con Pamela, una donna sovrappeso e un po’ invadente, incrina qualcosa nella sua disperazione a basso voltaggio – che condivide con quanti intervenivano nel suo programma – e la potenzia fino a farla erompere con forza. Ale comincia a interrogarsi su quali siano state le persone importanti nella propria vita, ripensa con graduale, crescente attenzione al fratello Bruno, alla moglie Ornella da cui si è separato, a Michel, un amico d’infanzia sparito di colpo, e ricostruisce (o, forse raccontando, crea) frammenti di una storia che li riguarda e che lo riguardano. Scopriamo anche come mai, nell’unica volta in cui il protagonista può dirsi in prima persona, sia stato retrocesso dal ruolo di vicedirettore a conduttore di un programma notturno.
Apparente frammentarietà
Nonostante l’apparente frammentarietà, le tredici autonarrazioni e i capitoli che raccontano di Alessandro in terza persona sono legati da fili emotivi sommessi, mediati dai brani musicali che preannunciano o riprendono qualche elemento tematico, creando sottotraccia una rete di connessioni sempre attiva fra le tipologie espressive del testo (le telefonate, i brani musicali, la “storia di Ale”) che pure si presentano formalmente distinte. E in questa trama impalpabile e persistente, che circola ovunque con un linguaggio nitido e allusivo al tempo stesso, sta a mio avviso uno dei pregi del romanzo che, pur sviluppando temi e ossessioni dell’autore presenti in forme diverse nella sua produzione precedente, perviene qui a risultati ancora più convincenti. Gli interventi, infine, di uno stesso ascoltatore con cui Lepori apre e chiude il libro, racchiudono come in una cornice circolare la crisi ostinatamente ignorata da Alessandro sul dilemma se accettare l’inevitabile trasformazione dei rapporti oppure abbandonarli per aprirsi alla virtuale possibilità di nuovi amori. Attorno a lui, il mondo esterno, nel mese di “sospensione” della routine, non fa altro che rimandare una visione della società occidentale fatta di solitudine, di insoddisfazione, di un’esistenza a voltaggio moderato, con i casermoni tutti uguali e privi di manutenzione delle periferie urbane o le costruzioni industriali arrugginite e in abbandono. Città nelle quali sembrano aggirarsi solo esseri umani pingui, grassi (a partire dal protagonista), che manifestano nella loro bulimia una ferita primigenia e la mancanza di profonde relazioni affettive.
Quel debito con Truffaut
Titolo del libro e della trasmissione si ispirano naturalmente all’omonimo film di Truffaut (La Nuit américaine nell’originale), peraltro ripreso e citato nell’intervento conclusivo dell’ascoltatore di cui si è accennato: “Perché io ci credo, adesso come allora, a quest’idea dei treni della notte, alle storie che ci consolano […] E chi se ne frega cosa è vero o no”. Non so se il nome di Pamela dato al personaggio collocato al centro del libro sia ancora un ammicco a Truffaut: Vi presento Pamela è infatti il titolo del film che in Nuit américaine sta girando il personaggio del regista. Col che, il romanzo di Lepori si confermerebbe come una narrazione costruita sulla necessità del narrarsi, dentro, o forse contro, una realtà di comune alienazione quotidiana, così come l’opera di Truffaut – un possibile equivalente dei Sei personaggi in cerca d’autore ‒ è un film che rappresenta la costruzione di un film nel suo rapporto con la realtà in carne e ossa degli esseri umani.
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