“L’anno della Storia” di Angela Borghesi racconta la pubblicazione e il lancio del romanzo di Elsa Morante e il lungo dibattito che ne seguì: tra miopia e faziosità dei giudizi, il libro arrivò a un vasto pubblico, come desiderava la scrittrice. È il racconto di una stagione e di un’Italia che (forse) non ci sono più, fra manicheismo, contraddizioni, ingenuità e ripicche
C’è l’anno del pensiero magico, quello della lepre, quello della morte di Ricardo Reis. E poi c’è L’anno de La Storia 1974-1975. Il dibattito politico e culturale sul romanzo di Elsa Morante. Cronaca e Antologia della critica (928 pagine, 34 euro) di Angela Borghesi, docente di letteratura italiana contemporanea all’università Bicocca di Milano. Un volume di enorme spessore e immane documentazione (recensioni, lettere, ricordi, perfino pettegolezzi, oltre a un imponente saggio), pubblicato dalla raffinata casa editrice Quodlibet nella sua collana riservata ai saggi. Un testo da mettere accanto ai libri di Elsa Morante, per affrontare il mistero della sua vita e delle sue parole con più coraggio e maggiori strumenti.
La guerra di religione di un’élite culturale
Donna. Donna di successo. Donna non assogettata e non assoggetabile a diktat ideologici, «scrittrice cosciente dei propri mezzi e priva di soggezione verso le parole d’ordine allora vigenti in campo letterario e politico». Elsa Morante era una calamita per critiche e pregiudizi, con i suoi libri capaci di avere un impatto concreto sulla vita di una gran porzione di suoi lettori. Realtà o fantasia? Lei ne era convinta come ogni buon scrittore del ventesimo secolo, quelli disillusi del presente non la penserebbero così, almeno a proposito dei loro libri. Solo qualche decennio fa era ancora diverso e poi, trattandosi dei romanzi di Elsa Morante, chi li ha letti non se li porta dentro per sempre? In questo splendido e densissimo saggio, firmato da una studiosa molto preparata, c’è da perdersi: non si racconta solo la vicenda editoriale di un libro di successo, ma quello che finì per essere uno dei più accesi dibattiti culturali del panorama italiano, una contrapposizione politico-ideologica, un oggetto di studi sociologici, la fine di amicizie, la nascita di odi. Di mezzo c’era un’élite culturale fortemente ideologizzata con cui fare giocoforza i conti. Manichea e accecata dall’ideologia, quella élite non poté che fomentare una guerra di religione e scagliarsi in gran parte contro il coacervo di quello che andava combattuto: quel libro, La Storia, non guardava allo scorrere del tempo come occasione di salvezza o come dispiegarsi del progresso, tutt’altro, e tra le sue pagine gli uomini nuotano nel tempo più o meno come esseri inermi, non certo come eroi; la storia, insomma, era un incubo; quel libro, poi, aboliva la distinzione fra letteratura alta e di consumo e uno sguardo colmo di pregiudizi come quello di chi giudicava non era preparato a tanto e non poteva nemmeno immaginare che cosa sarebbe accaduto nei decenni successivi, o cosa accade oggi.
Il successo da condannare
Il 20 giugno 1974 quel volumone, che l’autrice volle al prezzo popolare di 2.000 lire, aprì una burrascosa stagione di polemiche, con la sua tiratura iniziale da centomila copie, un battage pubblicitario mai visto prima e un marchio indelebile, il successo. Che in Italia va pagato, raramente si cerca di capirlo, quasi sempre si condanna. Pochi colsero una delle cristalline e semplici verità che quel romanzo aveva cucito nel Dna: il comune destino dell’umanità, l’uguaglianza di tutti gli uomini, deboli e forti, poveri e ricchi, dinanzi alle ingiustizie e al potere. Le centinaia di recensioni erano più che altro sberle, attacchi, critiche, spesso motivate dall’ideologia, specialmente da parte di chi pontificava da sinistra. Sulle pagine del «manifesto», fu pubblicata una squallida lettera, spazzatura, a firma di Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi e Umberto Silva; e poi un po’ tutti gli intellettuali o presunti tali dell’epoca – tranne Franco Fortini, che si ritrasse volontariamente – si cimentarono nell’esercizio della stroncatura radicale, per umanissime, ma non comprensibili, ragioni: gelosia e invidia per il riscontro commerciale dell’opera che in qualche modo dura fino ai nostri giorni, e fa vacillare i critici di professione, surclassati dai lettori, a cui Elsa Morante giunge in modo diretto, senza mediazioni; il pregiudizio nei confronti delle donne, in certi casi totale misoginia; l’eccesso di pathos, un registro considerato ai limiti del sentimentale.
Il romanzo vivo di un’amica geniale
Il libro di Angela Borghesi finisce per essere una foto di quell’Italia che non c’è più (o forse rimane ancora qualcosa…), scandaglia contraddizioni, ingenuità, ripicche e limiti della critica italiana a partire dalla «disputa sul romanzo più durevole, pervasiva e animosa che l’Italia del dopoguerra aveva avuto».Quel tempo è lontano. Negli ultimi anni, esulta Borghesi (che sostanzialmente prende posizione a favore di quello che è uno dei capolavori, disperati e gioiosi, di Elsa Morante), «gli studi sull’opera morantiana stanno vivendo un’altra primavera. E la nuova narrativa mostra di non avere paura del patetico». Negli ultimi anni sono facezie, televisive o legate ai social network, ad alzare polveroni, la letteratura non ha quella forza prorompente di entrare in ogni casa e di trovare spazio in tutti i giornali. Questo puntuale dossier finisce per ricordarci il soggiorno sulla terra di un’amica geniale, i suoi vinti senza futuro ma con un filo di speranza, gli interventi datati e miopi che s’abbatterono sul suo libro più discusso, su un romanzo vivo. Una lezione per il presente e per il futuro.
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