Elvira Navarro e “La lavoratrice”, un estratto

“La lavoratrice” della spagnola Elvira Navarro, elogiata anche da Enrique Vila-Matas, è un breve romanzo multiforme, uno sguardo tagliente sulla precarietà lavorativa ed esistenziale, qui associata in modo inedito alla malattia mentale. Da domani sarà in tutte le librerie, nella traduzione di Sara Papini. Ne pubblichiamo, in anteprima, le prime pagine, per gentile concessione della casa editrice LiberAria

FABIO

[Questo racconto riunisce quello che Susana mi riferì sulla sua pazzia. Annoto anche alcune delle mie reazioni, non molte in realtà. Inutile aggiungere che il suo resoconto fu molto più caotico:]

Ero da poco tornata a Madrid, Internet non esisteva e dovevo ricorrere ai giornali. Il mio unico desiderio era farmi leccare la fica con le mestruazioni in un giorno di luna piena. Così, senza una ragione particolare. Credo che la follia si nascondesse proprio lì, in quella pretesa al limite e allo stesso tempo minima, come inghiottire un centopiedi con l’insalata. All’inizio non ci pensavo più di tanto, se non quando mi trovavo davanti un giornale con la sua sezione di uomini e donne che cospiravano in tre righe; allora mi prendeva la smania, chiamavo e mi presentavo all’appuntamento così com’ero. Portavo con me un calendario delle mestruazioni e chiedevo che l’incontro successivo avvenisse in un giorno di luna piena e a casa mia. Quasi tutti mi rispondevano con un no nervoso, e non perché sembrasse un’assurdità, ma perché scagliavo la proposta come se stessi giocando alla roulette russa. E anche a causa della mia faccia tonda e rubiconda, del modo di parlare sconnesso e degli occhi, che nel loro naufragio vacuo e ter- rificante, lasciavano trasparire ogni cosa. So bene com’erano i miei occhi, misuravo con la nebulosa precisione dei cinque sensi il ridicolo delle mie smorfie intossicate, sciocche, attente al di sopra delle mie possibilità. Correnti convulse mi scuotevano il volto, che si esibiva in torsioni impreviste. Tutti mi guardavano schifati, perché non solo ero brutta e accentuavo la mia pazzia, ma quella proposta non mi redimeva. Non pensare però che la cosa mi importasse. Sì, curavo il contesto e a tal fine girai tutti i bar di Huertas con un’atmosfera da caffetteria, di mani che abbracciano tazze bollenti alla luce di un pomeriggio sbiadito. Mi piaceva contemplare la strada attraverso un vetro che definisse il freddo di fuori e la patina di caldo secco all’interno, quel caldo infagottato, di acqua sopra i termosifoni e fumo di quando tutti fumavamo. Dico atmosfera da caffetteria perché non volevo che fossero vere e proprie caffetterie. In quei locali le vecchie signore andavano a fare merenda e ai loro occhi ero sempre colpevole. Ti sto parlando di quando le caffetterie traboccavano di donne cotonate e in lutto. Quelle donne sessantenni non perdonavano il cornetto alla piastra inzuppato nel Nescafé delle sei, e io avevo appuntamento con gli inserzionisti alle sette. Riuscii a trovare un bar con le pareti verdi, leggermente inospitale, dove c’era sempre un tavolino libero accanto alla finestra. Non badavo all’età degli uomini che incontravo, neanche all’aspetto, a meno che non esibissero patacche, unghie non tagliate e con i bordi neri o resti di insalata tra i denti. Di solito non accadeva; al primo appuntamento tutti si presentavano puliti. Al secondo, e data la mia richiesta, alcuni si trascuravano. Allora potevo vedere appeso ai loro corpi il pensiero Che importanza può mai avere. Se è questo che chiede, chi se ne frega di lei, ma anche così ci provavano ancora una volta, perché nella vita non si può mai sapere. Si adoperavano per farsi invitare nella mia mansarda dicendo “Certo, oh, come no, prima le signorine”. Ma ormai li avevo inquadrati. Chi ha perso il rispetto per sé stesso non tarda a perderlo per gli altri. Se devo essere sincera, erano davvero in pochi a prestarsi a un secondo appuntamento. Unicamente quelli soli da così tanto tempo da esibire una sciatteria da macchie di sugo sul risvolto. Per questo ti parlo di patacche. La disperazione generalmente non si spingeva così lontano. La mia pazzia faceva paura e gli uomini si alzavano dalla sedia non appena distendevo il calendario e indicavo con la punta del dito livido la fase lunare come se stessi evocando le maree. I più educati aspettavano di finire la birra per andarsene. Trovare qualcuno che acconsentisse a realizzare il mio desiderio divenne di estrema importanza e, quando capii che tra gli uomini che non mi spaventavano nessuno era disposto a iniziare da lì, passai alle donne. Non mi sono mai piaciute molto perché è un po’ come baciare me stessa, ma per quello che volevo andavano bene, be’ più o meno. Loro non si scandalizzavano, benché fosse un antipasto fuori dal comune. Mi accorsi che rispondere all’inserzione di qualcuno mi faceva sentire meno potente, e quindi cominciai a pubblicare i miei annunci. A quel tempo ero già passata dal risperidone al litio: la mia classificazione era cambiata da schizofrenica a bipolare. Il litio ha meno effetti collaterali e mi permetteva di seguire una conversazione. Parte della mia energia si dissipava in annunci settimanali su tutti i giornali, diretti a uomini e donne, poiché a quel punto avevo già imparato la lezione. Ora penso che quel desiderio non fosse un riflesso della mia pazzia, ma soltanto un’ossessione che, tra le altre cose, mi teneva occupata. All’epoca non avevo nulla da fare. Dico nulla e intendo dire NULLA, aprendo la bocca così [Susana aprì la bocca e ci infilò il pugno intero], e non sai fino a che punto deprime che la realtà, o la tua testa, sia un pezzo di vetro rotto, opaco, abbandonato sul ciglio di un marciapiede. Avere un obiettivo mi equilibrava. Mi dava una certa aria da amazzone e l’illusione di avere in mano una bussola. Misi anche un annuncio diretto ai gay: “Donna eterosessuale cerca uomini omosessuali”. Dopo cinque mesi ero totalmente scoraggiata: non avevo trovato nessuno che mi leccasse la fica con le mestruazioni al secondo appuntamento in un giorno di luna piena. Non ero nemmeno riuscita a farmi piacere qualcuno. Le lesbiche che rispondevano ai miei annunci erano di quelle con l’aspetto da lesbiche: capelli corti, schiena ampia, braccia da campionesse di pallavolo. Non avevo mai dato appuntamento a così tanta gente, ma avere un obiettivo, come ti ho detto, mi stabilizzava. Ora non sono nemmeno sicura che la mia smania avesse a che vedere con il sesso, perché trascorrevo la maggior parte del tempo inebetita. Durante quegli incontri, se l’altra persona parlava molto e mi obbligava ad ascoltarla, mi addormentavo. Quando mi svegliavo ero da sola.

Un giorno d’autunno apparve Fabio. Era messicano, ma nessuno l’avrebbe detto visto il suo aspetto da irlandese. Io avevo una certa ossessione per i biondi rossicci. [Assunsi un’espressione vaga, come quella di una gazzella di Thompson che tende un agguato alla telecamera in un documentario. Ero sul punto di dire qualcosa, però.] Una volta il mio psicoanalista mi assicurò che stavo cercando la bambina che ero stata in tutti gli uomini biondi di cui mi innamoravo. Poi, un secondo psicologo, junghiano, mi disse che in fondo veneravo la razza ariana. [Guardai a terra; mi sembravano osservazioni ridicole se Susana voleva essere creduta, ma d’altro canto, quella parte di me che osservava con morbosità e invidia la sua libertà nel costruirsi aveva emesso un guizzo remoto di gioia. Ero abituata alle sue esagerazioni, anche al fatto che mentisse, ma non con un così scarso senso della misura. Quella fantasia spropositata mi fece nutrire speranze di poter separare con esattezza il grano dal loglio e, perfino, che Susanna mi raccontasse ciò che anelavo sentire, importante soltanto per l’ansia dell’attesa. D’altra parte, essere sotto farmaci mi faceva dubitare, come se quanto ascoltavo potesse venir assorbito con naturalezza senza che la chimica intercedesse nelle mie cellule.] Fabio rispose al mio annuncio per omosessuali. Si presentò come un segu- gio alla ricerca di cosa c’era dietro quelle inserzioni. Sapeva quali richieste nascondevano, anche quando erano molto con- cise. Lo scopriva grazie all’olfatto. Passava tutto il giorno ad annusare giornali e riviste.

(Continua in libreria, dove è possibile acquistare questo volume, come a questo link)

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