Il romanzo rivelazione di Karina Sainz Borgo, “Notte a Caracas”, è un atto d’accusa contro le dittature che modificano geneticamente le persone, trasformandole in congegni di carne e sangue impauriti, fragili e feroci
«In Venezuela ci sono solo due cose democratiche, la morte e la fame». In una recente intervista la scrittrice Karina Sainz Borgo, trapiantata a Madrid, ha parlato così della sua terra d’origine dalla quale è andata via da tempo. Fa la giornalista, ha 41 anni, scrive saggi e col suo primo romanzo Notte a Caracas (203 pagine, 18 euro) ha sedotto critici, pubblico e agenti letterari di 22 paesi, tanti quante sono le pubblicazioni in corso.
Una storia semplice
È una storia semplice, in fondo, quella racchiusa in duecento pagine serrate – pubblicate da Einaudi Stile Libero, traduzione di Federica Niola – e col cuore in gola: scappare da una nazione messa a ferro e fuoco dalla dittatura, dalle rivolte, dalla miseria. Una giovane traduttrice, Adelaida, seppellisce la madre dopo una malattia malcurata perché vivevano in una città, Caracas, in cui è il caos a regnare, un luogo in cui «la solidarietà si era trasformata in predazione». Dire addio alla madre Adelaida è per lei lo spezzarsi dell’ultimo legame col passato e con la patria. La madre è tutto, insomma in «un paese dove le donne avevano sempre partorito e cresciuto figli di uomini che sparivano senza neanche fingere di andare a comprare le sigarette per poi non tornare».
Una speranza per la fuga
Adelaida quando torna a casa, dopo il funerale, la trova occupata da un gruppo di donne sguaiate e violente che la scacciano via. Sono legate al regime, la loro occupazione principale sono i saccheggi e i traffici di provviste alimentari. Sola, confusa, disperata, senza un punto d’appoggio, la donna non sa cosa fare. Sa che è difficile trovare sostegno e solidarietà: «Eravamo condannate, come il resto del paese, a ignorarci». Con una bella immagine Sainz Borgo spiega che il Venezuela era «qualcosa che aveva cominciato a saccheggiarci». Nel palazzo in cui ormai è un’estranea, la protagonista cerca riparo nell’appartamento di una conoscente. La porta è aperta. Strano. Adelaida si fa sentire, avanza, aspetta una voce. Ma in cucina trova la vicina di casa, di origine spagnola, morta, forse per cause naturali. Scappare da lì? Forse non è la migliore soluzione. Infatti, proprio quella morte offre una speranza per la fuga. Ma come?
Un totalitarismo sinistro, senza freni
Il romanzo di Sainz Borgo, tachicardico, è pervaso da una cappa grigia e surreale che sa di fumo di copertoni bruciati e dell’amara angoscia di quartieri devastati dal disordine, dall’anarchia, dalla violenza fomentata da un totalitarismo sinistro, senza freni. «Vivere era diventato uscire a caccia e rientrare vivi. I nostri atti più elementari erano questo, persino quando seppellivamo i nostri morti». Bisognava scansare i killer, abbondanti e spietati negli squadroni che sciamavano a ogni ora: «Ci sfoltivano. Ci ammazzavano come i cani».
Caracas, insomma.
La capitale di una nazione che prima era la più ricca del subcontinente americano e che nella trama del libro (nella trama della realtà) sprofonda in una guerra per bande che soffoca ogni forma di resistenza, ogni forma di dissenso, di civiltà, di voglia di vivere. Non c’è nulla da fare, insomma, se non tentare di andare via, di fuggire, di dire addio a tutto questo. Tutto è pericoloso («trovarsi in strada alle sei del pomeriggio era un modo stupido di rischiare la vita»), il cibo scarso («sciami di uomini prendevano d’assalto i negozi. Sembravano formiche. Insetti furiosi»), i soldi inesistenti («la moneta nazionale non era altro che un raggiro»). Persino la luce elettrica in quelle condizioni è un privilegio intermittente: «I black-out duravano ore e raccordavano il tramonto del sole a un buio perpetuo».
Prosa essenziale e asciugata
Questo è un racconto sugli effetti del totalitarismo; un atto d’accusa contro le dittature che modificano geneticamente le persone, trasformandole in congegni di carne e sangue impauriti, fragili e feroci. Un romanzo teso, narrato in prima persona, vibrante e accorato. Un racconto sulla notte della democrazia in quella terra disgraziata, scritto con una prosa essenziale, scabra persino, asciugata «come sa fare solo chi si è formato nell’abbaglio dei tropici. Nella luce che brucia ogni cosa».