Tornato in libreria con “Dove un’ombra sconsolata mi cerca”, lo scrittore veneziano Andrea Molesini ne racconta i segreti, elogia la casa editrice in cui è tornato dopo una parentesi con Rizzoli e consiglia un classico, “La tregua” di Primo Levi…
La quarta vita del veneziano Andrea Molesini ha avuto inizio a Palermo, grazie alla Sellerio, casa editrice di quasi tutti i suoi libri. Docente universitario di letterature comparate, narratore per ragazzi e traduttore (fra l’altro del poeta Derek Walcott), poi il romanzo con Sellerio nel 2010, Non tutti i bastardi sono di Vienna, che nel 2011 gli è valso il Campiello, trent’anni dopo il precedente e primo per Sellerio, con Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino, e apripista di altre due vittorie della casa palermitana, nel 2014 con Giorgio Fontana (Morte di un uomo felice) e nel 2015 con Marco Balzano (L’ultimo arrivato). Con il suo ultimo romanzo, Dove un’ombra sconsolata mi cerca (292 pagine, 15 euro) è tornato a pubblicare per Sellerio, dopo una “scappatella” con Rizzoli nel 2016, con La solitudine dell’assassino.
Molesini, come è “rinato” scrittore a Palermo?
«Ho inviato il mio primo libro ed è piaciuto. Non era semplice dar fiducia a un quasi esordiente, con una storia ambientata durante la Grande Guerra, non ancora di moda come un po’ lo è diventata nel centenario dell’inizio. Sellerio è un editore che ha una certa magia, attento alla letteratura italiana, al linguaggio. L’unico, con Adelphi, capace di creare non dico un genere letterario, ma un tipo di lettore. Gli altri editori, più industriali, pubblicano di tutto, anche i libri dei calciatori».
Ha dedicato il Campiello alla memoria di Elvira Sellerio, che era scomparsa da poco…
«Probabilmente il mio è stato uno degli ultimi libri che aveva letto. Il suo ricordo mi è venuto in soccorso nel momento di un successo sorprendente. Ho pensato fosse doveroso omaggiare il suo coraggio, le scelte originali e il rigore letterario, che non cede alle mode. Inseguirle è fatale».
Semmai ne ha imposte. Quale crede sia la forza di questa avventura che celebra il mezzo secolo?
«Sellerio, ed è un’intuizione dei fondatori portata avanti dai figli Antonio e Olivia, cerca l’universale dalla periferia. Non punta al bestseller o all’applauso immediato, poi magari arrivano ed è giusto esserne contenti. Fa scelte autentiche, nella letteratura conta la verità, può far male all’anima ma non la lusinga. Crede non ci sia più niente di datato dell’attualità, cioè che bisogna avere il senso dell’oggi ma guardando alla tradizione, ama e studia le tendenze del presente, ma cerca le radici della civiltà. E lo fa da Lampedusa al Tirolo, anche a livello linguistico. Camilleri è l’esempio più vistoso, non il solo».
Le sta stretta l’etichetta di romanziere storico?
«Sì, perché non amo le etichette, anche se posso capire che sono utili per orientarsi. Aderire alla realtà e a elementi storici mi dà una disciplina che altrimenti non avrei, mi costringe a orientare in un certo modo il linguaggio, a dire le cose che magari dicono tutti con frasi originali, un iper coerenza che mi aiuta a usare frasi che non si usano. Amo la collocazione nel tempo e nello spazio, con scenari geografici che conosco bene. E credo che, inevitabilmente, la forza dell’espressione nasca dalla costrizione, anche arbitraria».
In Dove un’ombra sconsolata mi cerca c’è un ragazzino che deve crescere in fretta e… qualche spunto autobiografico?
«Vero, oltre a diversi elementi geografici, la figura del padre è ispirata al mio, ufficiale della regia marina. Gli elementi geografici riguardano principalmente la laguna nord che conosco bene, perché da buon veneziano ho una barchetta. Da qui quella che è quasi una dedica iniziale al’acqua, ai suoi misteri, al fatto che sia la sorella del tempo e percorre la storia della letteratura universale, dal Panta Rei a Fondamenta degli incurabili di Iosif Brodskij. Il mio è un romanzo sul tempo e sulla luce, sono centrali fin dal preludio e a lungo, fino all’ultima frase del romanzo, che dice sostanzialmente che la vita continua, che la storia è infinita…».
Nei passaggi più belli del romanzo sono coinvolti i cinque sensi…
«”Nessuna idea, se non nelle cose” è un verso di William Carlos Williams, un motto che ho fatto mio. Ritengo che tutto ciò che entra nella cittadella dell’intelletto debba essere filtrato dai cinque sensi. Oggi siamo un po’ sordi, annegati nell’immagine, dimentichiamo, per esempio, che la musica è molto importante, che le parole sono suoni, che ciò che vive nel suono per essere decifrato ha bisogno della memoria».
Come vede il futuro del libro?
«È un oggetto antimoderno che difende l’individualità, minacciata da un mondo vorticoso, frettoloso, sciatto. Richiama a un bisogno di lentezza e contemplazione, all’approfondimento della propria identità. Resisterà perché è un bene prezioso, con tutta la sua catena, composta da scrittori, editori e librai, è a presidio della civiltà, ci difende dai predoni. Il mondo veloce di cui parlo è linguisticamente banale, in esso il codice linguistico è frantumato e quasi irriso nelle sue radici. Su Twitter tutto diventa pseudo pensierino, i tempi sono bui, ma l’anima dell’individuo, che è il solo luogo di libertà, è assetata di complessità e di un linguaggio complesso. Abbiamo bisogno di complessità, la poesia, e più in generale la letteratura, hanno sempre risposto a questo bisogno di complessità, che va nutrito. In fondo la poesia è il fine antropologico della specie, il linguaggio alla sua massima potenza».
Il primo libro che le viene in mente con queste caratteristiche?
«Uno che sto rileggendo, l’avevo letto a diciannove anni, La tregua di Primo Levi, Un libro eccezionale, bellissimo, esempio di memoir straordinario, dove la memoria della specie viene riscattata, dove il linguaggio si sente vivo, veriterio e autentico, semplice ma mai facile. È un esempio della complessità del semplice, dalla prosa solida e dall’architettura magnifica, in cui emerge anche la verve giocosa dell’uomo che vive la sua quotidianità in modo semplice». (Questa intervista è stata pubblicata in forma ridotta sul Giornale di Sicilia)