Tra le pagine di “Nel nome” di Alessandro Zaccuri anche la più truce descrizione di certe realtà appare addolcita con la grazia e l’amore con cui se ne parla: un racconto del sé attraverso suggestioni che per noi potrebbero essere solo occasioni bibliografiche, ma che per chi le ha scritte hanno rappresentato spazi e momenti della vita…
Cosa succede quando, mentre sei per strada, ti imbatti in un cartellone pubblicitario in cui vedi danzare una ballerina, senza che di questa ti sia concessa un’immagine completa? Cosa accade quando, magari fermo ad un semaforo tra via Sardegna e la circonvallazione, ti accorgi che qualcuno ha deciso di mostrarti solo le sue gambe, e non il suo viso? Se hai una storia da raccontare, anche quando non immagini ancora che dovrai farlo, allora probabilmente cominci a pensare che ciascuno ne abbia una come te. E se ti convinci di questo allora cominci a non farti bastare più i semplici particolari, e attraverso di essi tenti di risalire alla completezza di quell’immagine, fino a ciò che di quell’immagine dice tutto: il nome.
Così comincia Nel nome (163 pagine, 14 euro) di Alessandro Zaccuri (qui la nostra intervista): un titolo che subito, per un meccanico gioco di memorie, ti rimanda a una primordiale specificazione che subirà però uno slittamento fin dalle prime pagine, allargando di non poco lo spazio del sacro. È il quarto libro, la quarta perla di una collana (CroceVia) – qui abbiamo scritto de Il peso del legno e qui di Di ferro e d’acciaio – da NN Editore, con lo scopo di indagare sul significato e sul senso di certe parole care alla nostra storia, al nostro orizzonte linguistico e culturale.
Una testimonianza personale
Quest’opera, situata sullo stesso percorso esplorativo, riprende atleticamente il passo delle precedenti, muovendosi spedita tra tutta una serie di richiami intertestuali che, fin dall’inizio, ti fanno chiedere cosa potrebbe mai succedere se ognuno di quegli spunti venisse interamente approfondito. Ma si può scendere in profondità anche con accenni intelligenti e ben piazzati; con riferimenti che riferiscono, appunto, senza la pretesa di sostituirsi al testo primario. E allora 163 pagine, che prima potevano sembrare poche, diventano un numero perfetto. Alla fine del libro ti sembreranno poche lo stesso, ma per un altro motivo. Per un eccesso divenuto difetto.
Nel nome, per volontà del suo stesso Autore, non è da considerarsi un saggio ma una testimonianza personale. Un racconto del sé, quindi, attraverso tutte le varie suggestioni che per noi potrebbero essere solo occasioni bibliografiche, ma che per colui che ha scritto hanno certamente rappresentato spazi e momenti della sua vita.
Parlare di sé e del mondo, e viceversa
E cosa fai quando racconti qualcosa di te? Prendi spunto da altre cose, ti lasci sostenere nella narrazione da tutti quegli elementi che, portando dentro determinati significati, possono aiutarti a dire parte dell’indicibile. Perché parlare del sé è cosa incompleta ancor prima di provarci, eppure ci si prova lo stesso. Perché se è vero che riusciamo a bastarci pur senza esserci compresi del tutto, allora agli altri basterà ancora meno.
E può accadere anche il contrario: può capitare che si voglia parlare di una certa cosa, esterna a noi, e per farlo ci si appoggi a fatti della nostra vita, a esperienze attinte alla fontana della nostra esistenza. Insomma, morale della favola, non si può parlare di sé senza evitare di descrivere almeno una parte del mondo, e non si può parlare del mondo senza evitare di rivelare almeno una piccola parte di sé.
Questo libro funziona così, nell’andirivieni di un racconto che procede ad intermittenze continue, da fuori verso dentro e da dentro verso fuori. Lo scarto tra questi scambi costituisce il fulcro di questa leva narrativa: la vita è ciò che esercita il suo peso; la resistenza è ciò che l’Autore riesce a tirarne fuori. Il nome, appunto. Un nome che risolve, che permette scambi altrimenti impossibili.
Un nome e le sue evocazioni
Zaccuri sceglie Maria, che è nome potente, e non solo alle orecchie di chi crede. È nome potente perché potente è il ventaglio delle sue evocazioni, perché forte è l’eco di quei duemila anni di storia che ne sostengono il suono. Un nome come una custodia, dunque. Un nome che esercita autorità sulla facoltà dell’immaginazione, costringendola quasi a percorrere itinerari già fissati da immagini antiche e suggestive, intere iconografie di significati pronte a dischiudersi davanti a questo nome che è quasi una parola magica.
La logica degli antichi spiega che ogni nome è segno, e che quindi il suo compito si esaurisce quando ci traduce alla volta di un significato. Ma se certi significati trascendono limiti e confini della nostra percezione, possono certi nomi essere “segni” già altrettanto inesauribili? Il libro tenta un risposta in questo senso, affidandosi a quella fiducia che ogni lettore ripone in colui che racconta qualcosa. A quella docilità ancestrale che – come dice l’Autore – è l’atteggiamento di chi crede a un narratore perché ne rispetta la missione.
Una specie di specchio
E la missione è quella di un percorso significante, di una processione quasi triangolare tra il fatto, ciò che c’era prima e ciò che è venuto dopo, in una soluzione che non può avere direzioni predeterminate, ma ti spinge a riflettere su quale potrebbe essere la tua. Perché la storia di Alessandro è quella di Alessandro, mentre noi abbiamo la nostra. Lui parte dalla sua storia e attraverso una risalita apofatica, dove ogni negazione serve a conservare solo ciò che è vero, la riduce agli elementi essenziali, e poi ci dà questi elementi per ricostruire la nostra. E quando iniziamo a farlo ci accorgiamo che, nel frattempo, abbiamo trovato con lui tanti di quei punti in comune da cominciare a trattare il suo libro per ciò che esso è: una specie di specchio.
Le pagine procedono ritmicamente, in modo ordinato, animate da quella riconoscenza quieta, simile al respiro, che ci fa assaporare molto dei sentimenti che stanno all’origine di questa storia. Sentimenti tra cui, oltre alla gratitudine, sembra primeggiare il turbamento di sofferenze rimaste sospese (perché la risurrezione ha bisogno del suo tempo per essere creduta, per essere accettata), e con gli anni divenute parole lievi, senza aver perso però quella gravezza che prima le mostrava come grida ribelli, come recriminazioni quasi violente davanti a dubbi rimasti insoluti.
Dubitare
È qui che appare la classica contraddizione: il grido di chi, per aver troppo creduto, chiede conto al Creduto. La contraddizione diventa soluzione al suo stesso scioglimento; Zaccuri ci dice: «Non riuscirei a fidarmi di un cristiano che non dubitasse, perché anche Maria ha dubitato». E ci dice ancora che c’è una serietà estrema nella durezza di un’anima che grida davanti allo scempio del corpo: l’irriducibilità di chi non smette di affidarsi, chiedendo conto a Dio. Non si crede veramente, se almeno una volta nella vita non si ha il coraggio di chiamare in giudizio l’Altissimo.
Forse, nell’esercizio estremo di questo grido che a partire da un nome ci traghetta verso un altro, c’è tutta l’intenzione, da parte dell’Autore, di consegnarci un onesto metodo di indagine: i nomi, senza corpi, non hanno senso. Le pagine del Vangelo altrettanto. Non si dà nulla di autenticamente spirituale che non vibri a partire dal corpo. Ecco perché ogni storia ha bisogno di un corpo, oltre che di un nome. Coerentemente con quanto affermato, Zaccuri elabora abbondanti passaggi con delle esegesi testuali (bibliche e non) che ci mostrano un’originalità ermeneutica fuori dal comune. Come quando mette in parallelo l’episodio dell’Annunciazione di Maria con quello di una semplicissima ragazza di Crotone fermata per strada da un noto scrittore e regista, e scelta per essere la madre del suo Gesù secondo Matteo. Una ragazza che, prima ancora di diventare Maria, riceve quindi anche lei la sua annunciazione. E in tutto ciò, implicitamente, e con un’ironia del tutto simile a quella che sublima dalle reticenze del testo evangelico, Zaccuri trasforma Pasolini in una specie di arcangelo Gabriele (o in un dio?).
Il vero miracolo, un Dio che s’emoziona
L’Autore ne crea tante di suggestioni simili, facendo emergere concordanze anche lì dove forse nessuno c’aveva pensato. Raccontando dell’indemoniato di Gerasa, che si presenta a Gesù con il nome di Legione, scrive ad esempio che quel passaggio dal singolare al plurale è la diagnosi di ogni dissociazione, di ogni attitudine paranoica o sindrome schizoide. E ci fa pensare a forme grottescamente riflesse in tanti odierni plurali maiestatis che forse, a modo loro, manifestano dissociazioni anche peggiori. Dissociazioni di senso.
Nell’episodio di Gesù e Giairo, che chiede al Maestro di salvare sua figlia, Zaccuri riesce a tirar fuori persino una logica emotiva che collega il cuore di quel padre al cuore del Figlio di Dio; una scelta di parole, quelle usate dal capo della sinagoga, che a Gesù arrivano ad apparire irresistibili! Bellissima espressione! Ci fa capire cosa prova Gesù prima di compiere un miracolo. Anzi, ci mostra il vero miracolo: un Dio che si emoziona, che si accalora, che non “vede l’ora”. Nell’episodio attiguo, quello dell’emorroissa (parola imbarazzante e quindi difficile) che tocca il mantello di Gesù, si parla di… una forza che esce da lui e che si emancipa dal suo controllo.
Un uso così attento e naturale della lingua, nella semplicità e nell’eleganza, da creare quasi un malessere di bellezza. Lo stesso che si prova quando si riconosce al testo la medesima ricchezza dell’ironia evangelica, invisibile e tagliente, che ha come scopo non quello di far ridere, ma di far riflettere. E se l’ironia del Vangelo è una staffetta che passa da quelle pagine alla nostra intelligenza, Zaccuri l’ha colta al volo per consegnarcela a sua volta. Come quando crea una relazione di identità tra la gente colta e quella per bene, quasi che le due cose debbano necessariamente coincidere. Noi tutti lo sappiamo che non è così. Ma quanto ancora ci disturba doverlo ammettere?
Un’estetica finissima
Sulla scia di queste trovate geniali si innestano ancora enunciazioni di un’estetica finissima, che si rileggono più volte per convincersi di come davvero certe espressioni possano essere state consegnate in un modo così perfetto. In un amplesso descrittivo di natura squisitamente sensoriale, Zaccuri arriva a parlare dell’episodio della Maddalena e del Risorto come di… una suite da camera incastonata in una partitura teologica di imponente complessità. E anche davanti a ciò che è solamente un paesaggio, peraltro rubato ad una certa crudezza urbana, si ha l’occasione di ritrovarsi in una… peculiare forma di solitudine.
E poiché, in fin dei conti, si parla di segni e significati, ecco che si è spinti a comprendere meglio il senso nascosto dentro certe espressioni, usate dalle nostre bocche con l’ingannevolezza tipica di quei sinonimi resi tali solo dalla pigrizia (o superficialità) dei parlanti. Così, ad esempio, dire che “tutti muoiono” è una cosa; ma udire una suora che lavora in ematologia e che, parlando delle degenti, dice: “Muoiono tutte!”, è decisamente altro. Sono quelle impercettibili differenze che fanno la lingua e che… conferiscono personalità al destino.
Lo stupore come un’intermittenza
E ancora, paragona lo stato dello stupore a una intermittenza. Ed è vero. La meraviglia ti accende e ti spegne, ti accende e ti spegne. Non ti permette appiattimenti di nessun genere. Per questo ci si stupisce anche quando, parlando dell’espiante Maddalena (anche lei una Maria, ma ce ne sono molte altre), ne descrive i sette demoni dando loro un nome preciso. E ci si chiede se li abbia trovati o se li sia inventati. Ma l’effetto non cambia, perché in ogni caso è contro di essi che ogni uomo combatte. O quando citando I Miserabili ci ricorda che Jean Valjean, divenuto il Sig. Madeleine, ha scelto questo nome perché anche lui deve espiare. Era ovvio! Ma perché non c’abbiamo pensato prima?
Perché scrivere è appunto una missione. E certe missioni arrivano dall’alto, come le vocazioni, facendo di uno scrittore un profeta. E i profeti vedono cose dove altri non le vedono. E percorrono strade che altri non conoscono. Anche Zaccuri, che deve essersi riconosciuto incastrato (o liberato) nell’intreccio di queste meccaniche, denuncia se stesso come un quasi colpevole, reo di creare memorie inesistenti: Non tollerando il vuoto, la memoria non può fare a meno di fabbricare falsi ricordi. Così ci dice a pagina 53, in un’ammissione di colpa che è forse anche l’intento di giustificarsi in quella sua propensione a ricavare per forza una storia, una provenienza, una genetica esistenziale da ogni volto incontrato sul proprio cammino. Questa fabbricazione di ricordi, però, non è l’opera di un falsario ma di un artista. Perché l’arte, in fondo, non è altro che una forma di nostalgia attraverso cui l’uomo cerca di riappropriarsi di quei frammenti di realtà che non è riuscito a far propri nel modo consueto.
I sentieri di frodo della memoria
C’è, in tutta questa malinconica e bellissima anamnesi di “falsi ricordi”, che sono però verissimi nella loro funzione mnemonica, lo stesso meccanismo rinvenibile in quella canzone di Brassens, Les Passantes (che noi tutti conosciamo grazie alla rivisitazione di De André) dove per amare bisogna per forza immaginare. Zaccuri è in sintonia con l’intenzione dello chansonnier francese, ma anche con quella di Dio, il quale opera il medesimo processo: per necessità di amore ricorda ciò che non esiste, e lo crea. Percorrendo così quelli che egli stesso chiama i sentieri di frodo della memoria, l’Autore custodisce meravigliosamente bene i frammenti che riesce a ricuperare per strada. Diventano essi gli elementi della sua fabbricazione. Un’opera che, alla fine, acquisisce tutta la sacralità del gesto di quel primo uomo che, dovendo trovare un nome per ogni cosa, si trovò costretto ad inventarlo.
L’unica cosa che l’Autore non inventa è la sofferenza. Per sua stessa ammissione, egli non sopporta i ritratti edulcorati e imbellettati di quelle tragedie umane che meritano d’essere descritte come sono, fosse solo per rendere onore a chi così coraggiosamente le ha vissute. Ma è pur vero che in quest’opera anche la più truce descrizione di certe realtà appare addolcita con la grazia e l’amore con cui se ne parla. Ne ricaviamo, come peso netto di tutta la questione, che l’amore sa parlare di ogni cosa senza mutarne né la forma né l’essenza; l’amore, piuttosto, conferisce ai nostri occhi una luce nuova, e una nuova prospettiva di osservazione. Zaccuri, preoccupato di far emergere la verità dalla realtà, usa questo sguardo e ce lo presta; e così abbiamo ben più che una raffigurazione. Abbiamo una trasfigurazione. Un’altra.
Con il suo permesso, mi piacerebbe concludere questa recensione facendo mia la sua stessa dedica; rivolgendo cioè anch’io un pensiero di gratitudine a quel Fabio che di Alessandro è senz’altro l’amico più prezioso.
Caro Fabio, ci fu un istante in cui tu chiamasti “bellissima” una donna di nome Annamaria, e magari non potevi neanche pensare quali riverberi di riconoscenza avrebbe prodotto quella tua parola. Ciò che nasce dalla bellezza è sempre bellezza. Da quel tuo “bellissima” è nato questo libro.
La morte ci spaventa, ma l’amore è più grande. E ogni grazie è una forma di amore. “Marta, Marta” dice Gesù a Betania. “L’orrore! L’orrore!” mormora Kurtz in punto di morte. “Anna, Anna” chiamava mio padre quella notte. Una volta non basta. Per l’amore, come per lo spavento, una volta non basta mai.
Grazie. Grazie davvero Alessandro Zaccuri, per aver trasformato l’ovvio in qualcosa di straordinario. O meglio, per aver restituito al dominio dello straordinario ciò che all’ovvio non era mai appartenuto.