Senza fronzoli e toni patetici, “Il commensale” della basca Gabriela Ybarra è un memoir familiare con cui l’autrice si riappropria del passato, mettendo a nudo i sentimenti e facendo i conti con i dolori più feroci
A fine lettura risfoglio Il commensale (160 pagine, 16 euro) di Gabriela Ybarra, Alessandro Polidoro Editore. Mentre raccolgo le fila dei pensieri e dei sentimenti, preparandomi a scriverne, rimugino sul mio modo di essere lettrice. Non trascuro mai il peso esercitato sulla costruzione del giudizio, scientemente o inconsapevolmente, dal personalissimo «arsenale – per dirla con Alan Pauls – di strumenti, concetti, tecniche e tic». Tendo, tuttavia, sempre a fare i conti prima con certe superstizioni – rubo ancora a Pauls – che mi guidano nella scelta dei libri. Ad esempio l’autore, l’argomento e i premi vinti. Poi la casa editrice: mi incuriosiscono quelle giovani, indipendenti e audaci. Faccio caso ai direttori delle collane, chiaro valore aggiunto. Infine, in barba a chi ha stabilito che un libro non si giudica dalla copertina, indizio invece utilissimo a rivelare la progettualità, la serietà, l’ambizione di un editore, bado molto a ciò che viene dato in pasto ai miei occhi.
Gli argomenti giusti
Quanto è in linea con le mie superstizioni Il commensale, dell’esordiente Gabriela Ybarra, tradotto in italiano da Maria Concetta Marzullo?
Verifichiamo.
Argomento: un memoir ambientato nei Paesi Baschi, in parte durante gli anni del terrorismo, desta il mio interesse.
Premi: la vittoria del “Premios Euskadi de Literatura” 2016 e l’inserimento nella rosa di candidati al Man Booker International Prize 2018 sono ottimi piazzamenti.
Edizione: Alessandro Polidoro, casa editrice napoletana indipendente, nata nel 2013, vanta un catalogo di tutto rispetto .
Direttore di collana: Marco Ottaiano, nome che è già una garanzia.
Copertina: a firma di Adriano Corbi, direttore editoriale e sviluppatore della linea grafica, di grande impatto.
Direi che gli argomenti per incuriosirmi c’erano tutti.
Il sequestro e la malattia
Gabriela Ybarra, nata a Bilbao nel 1983, oggi vive e lavora a Madrid. Il commensale nasce dal suo proposito di affrontare la morte, che siede come ospite abituale al desco di famiglia, avendo usurpato due posti, quello del capostipite, Javier Ybarra, il nonno paterno rapito e ucciso nel 1977 dall’ETA, e più recentemente quello della madre, vittima di un cancro.
Portare a galla la storia del sequestro, filtrandola dai silenzi e reticenze, divenute nel padre, per via del trauma, una vera e propria attitudine caratteriale, e mettere ordine nel cristallo di tempo nel quale ha incastonato l’addio alla mamma, sono i due punti della strategia che Ybarra segue per neutralizzare l’ostinato convitato. A essi dedica le due distinte sezioni del romanzo, la prima riservata, appunto, all’azione terroristica diretta contro il nonno, figura pubblica di primo piano nella storia basca, la seconda al semestre di malattia materna.
La politica, una questione familiare
La narrazione parte dalla casa di famiglia, che rappresenta metaforicamente, ma anche letteralmente, un bivio (Bidarte, il nome della residenza significa appunto questo), per inerpicarsi su due sentieri che, nonostante procedano separati, attengono ontologicamente entrambi al territorio della politica. «Com’è possibile», si chiederà il lettore ignaro della vita e della storia basca. La risposta è semplice:«È possibile perché è così […] Mentre nel resto della Spagna e in quasi tutta l’Europa la politica si trasformava in un’attività svolta da individui, in Vizcaya restava ancora una questione familiare». Se il sequestro di Javier Ybarra, che ha reso il padre di Gabriela sfuggevole, in perenne allarme per la sicurezza dei familiari, circospetto fin nelle più banali attività quotidiane, è, con immediata evidenza, vicenda privata ma anche politica, coincidendo con il destino dell’intera nazione, allo stesso modo degli Ybarra ostaggio dell’ETA, come loro scioccata, ferita, terrorizzata, lo è dunque anche la scomparsa di una madre, quando l’importanza pubblica di un cognome resiste agli anni.
Riappropriarsi del dolore passato e ricalibrarsi alla nuova condizione di orfana attraverso un romanzo, o meglio, scrivendone uno è stata una magnifica intuizione.
Una scrittura asciutta, ma non arida
L’ombra greve dell’ETA, coprotagonista della prima parte del libro, rimanda inevitabilmente a Patria (di cui abbiamo scritto qui) di Aramburu (qui la nostra intervista), parimenti focalizzato sugli anni del terrorismo basco. Gabriela Ybarra condivide con il collega il merito di aver trovato un percorso altrettanto originale, solido, efficace per affrontare l’argomento.
Il Commensale risuona di una voce energica, determinata, che non inciampa – ottimo elemento a favore – né in fronzoli, né in toni patetici. Una scrittura che, sebbene proceda asciutta, è tutt’altro che arida e meno che mai tediosa. Gabriela Ybarra dimostra che si può neutralizzare l’austerità del rigore stilistico, disinnescare il pericolo di freddezza a cui la parsimonia verbale espone, appassionare, infine, il lettore grazie alla capacità – inclinazione caratteriale e non artificio del mestiere – di mettere a nudo i propri sentimenti, fragilità in primis, con semplicità, grazia e candore.
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