Il prezioso romanzo di un poeta, Daniele Mencarelli, “La casa degli sguardi”, è un volume che chi ha perso deve recuperare. La devastazione e la rinascita, il declino di un uomo e il riscoprirsi uomo in mezzo al dolore più incomprensibile, da addetto alle pulizie in un ospedale pediatrico
Non solo vita e disperazione, non solo degrado e morte (sociale e psicologica), qui c’è posto per la rinascita, per la resurrezione. Il dolore e la devastazione, la discesa agli inferi, con genitori impotenti al capezzale, con un perenne quotidiano oblio con cui fare i conti, sono vissuti dal protagonista del romanzo autobiografico di Daniele Mencarelli, La casa degli sguardi (228 pagine, 19 euro), pubblicato da Mondadori: il libro speciale, magistrale, in prosa di un poeta, destinato ad arrendersi all’alcol, alla solitudine, a un incidente, ai pianti, all’incoscienza e invece rinato dove un amico gli trova un lavoro, al Bambin Gesù, l’ospedale per l’infanzia del Gianicolo, a Roma, in una cooperativa che si occupa dei servizi. Chi, colpevolmente, come chi scrive, non si fosse accorto del passaggio in libreria di questo volume prezioso, si fidi, torni indietro.
Quando il dolore cede il passo
La materia è incandescente, ma Mencarelli – che racconta una vicenda di fine anni Novanta – non cede mai alla retorica e nemmeno ala scrittura di versi fra le righe: si immerge in un altro mestiere, accettandone le regole, ma comunque sorprendendo, con sensibilità ed empatia. Il dolore intimo, individuale, personale del protagonista, tra i corridoi dell’ospedale, cede il passo a quello dei piccoli ricoverati, di certe loro vite che sono veloci calvari e si concludono con la morte («…se ci sei tu, Dio, dietro tutto, perché non hai preso me? O qualsiasi altro adulto sulla faccia della terra?»). La vita non sta nell’autocompatimento e nelle sbronze in cui annientarsi, semmai nel lavoro, anche umile, nel coraggio e nella lotta. Non bisogna aver paura della vita, sembra dirci Mencarelli e non è affatto scontato scriverlo, raccontarlo, viverlo, accendere una luce in modo consapevole…
Pagine che lasciano riverberi dentro
Nella caduta e nella risalita il lettore che si accosta al romanzo di Mencarelli rintraccerà un’energia emotiva capace di lasciare, a lungo, riverberi dentro. L’intima riflessione tra le stanze dell’ospedale, gli schiaffi in faccia dell’estremo male e dell’estremo bene, il riscoprirsi uomini quando il dolore più incomprensibile e furioso sbatte addosso e si abbatte su anime innocenti (si pensi ad Alfredo, detto Toc Toc): ci sono tutte queste cose in pagine che vanno assaporate lentamente, per farci i conti davvero, anche quando disturbano, anche, soprattutto, quando non concedono alibi. È così che la memoria ha la meglio sull’oblio, i rapporti umani prevalgono sul vuoto, la poesia e la scrittura (che però da sola non è un farmaco ai mali della vita), sia pure dolenti, fanno evaporare il vino bianco e l’autodistruzione.
Eppure c’è gioia
C’è un concentrato di sofferenza in questo libro da far impallidire i piccoli quotidiani impicci in cui possiamo imbatterci. C’è un uomo di venticinque anni fragile e forte, consapevole del dolore di cui è causa fra quanti lo amano, che ce l’ha fatta. Destabilizzato dall’alcol, ma ancor più dalla realtà con cui impara a fare i conti tutti i giorni. Eppure c’è gioia, in fondo, c’è anche un addestramento alla leggerezza (i maestri sono i colleghi del protagonista), c’è la vita. Mencarelli va apprezzato per il coraggio e aspettato per le prossime parole che vorrà regalare ai lettori. Se vorrà esprimersi in versi, in prosa, a gesti, muovendo le pupille, i suoi lettori, vecchi e nuovi, lo aspetteranno a braccia aperte.
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