Zero semplificazioni e nessuna scorciatoia, lo scozzese John Niven in “Maschio etero bianco”, attraverso pagine piroettanti e un protagonista spavaldo e indiavolato, ci chiede quante protuberanze ha la vita… Una storia che aderisce alla pragmatica ruvidezza dei nostri tempi
Non lasciamoci imbrogliare. Non vorremo mica credere che Maschio Etero Bianco (362 pagine, 13 euro) di John Niven (tradotto da Marco Rossari per Einaudi) sia solo la storia complicata e spavalda di Kennedy Marr, plurimilionario scrittore di mezz’età? Sciocchezze, questo libro è un inquisitore, un indagatore. Un sacerdote che dal pulpito ci pone una domanda seria: quante protuberanze può avere la vita? Già, perchè al centro di tutto, nell’occhio del ciclone di queste pagine piroettanti c’è una malinconica, coraggiosa, fastidiosa, pruriginosa riflessione sul senso stesso dell’esserci.
Vivere alla grande, la migliore vendetta
Come sempre Niven aderisce perfettamente alla pragmatica ruvidezza dei nostri tempi. Per rispondere non si abbandona a facili semplificazioni. Sa bene che la morte livella tutto e restituisce un senso a ogni cazzo di giornata che abbiamo trascorso. Però non cerca scorciatoie. Il suo protagonista è un indiavolato. Uno che guarda alla fine di tutto con una certa rabbia, provando ad autoconvincersi che «vivere alla grande sia la migliore vendetta». Sì, perchè con il pedale dell’acceleratore sempre pigiato, con i soldi scialacquati come se non ci fosse un domani e con il pisellino in ammollo in qualche superfiga californiana, nonostante tutto, non ci si butta via, si realizza quasi una predestinazione. Del resto, il carettere è il destino, si legge tra le righe. Kennedy Marr nè è certo, gli uomini talentuosi possono e devono vivere al di sopra delle regole, non subordinate ad esse. Mica come suo fratello Patrick, brav’uomo, per carità, però insomma: con la stessa moglie da oltre vent’anni e con un lavoro che a stento gli permette una casetta appena fuori Dublino. No, lui vuole di più, perchè tanto il sipario calerà per tutti. Anche per chi ha aiutato ad attraversare la strada alle vecchiette o per chi ha vissuto con morigeratezza e carità. Tanto vale sciallarsela. Eppure, le caleidoscopiche avventure del protagonista – scazzottate, scopate, pigri insegnamenti all’università – e le infinite declinazioni dell’alcool al quale si concede – vodka, gin, birra, vino, whiskey, brandy, rum – lo indurranno a ripensare la sua scala valoriale. E la sua stessa vita. Le scelte fatte e quelle che avrebbe potuto fare. Gli amori annegati nel sesso e quelli invece lasciati andare stupidamente. I figli mai avuti e l’unica figlia, Robin, che invece lo avrebbe voluto più vicino. Anche solo stravaccato sul divano a rimpinzarsi di patatine. Ma più vicino.
L’imprevedibilità e il dubbio instillato
Vivere, e non strafare cercando di ingannare il tempo, è allora l’approdo? Non lo sapremo mai. Il pregio di Niven è quello di non chiudere la porta perchè in questo dannato mondo c’è sempre spazio per una buona dose di imprevedibilità. Nessuno ha la verità in tasca. Tutt’al più qualche bigliettone da cento. Con cui puoi cenare nei migliori ristoranti o dormire nei migliori hotel, vestire gli abiti più lussuosi o viaggiare a rotta di collo. Una figata indubbiamente. Ma vivere, vivere è un’altra cosa. Forse l’amore è un passaggio obbligato, una tappa imprescindibile. John Niven prova a instillarci il dubbio. Kennedy Marr sembra confermarcelo mentre gli spruzzi del mare d’Irlanda gli lambiscono appena il bavero del cappotto.
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