Un’accurata mappa letteraria di Torino, città affascinante e misteriosa, un viaggio nelle opere degli scrittori torinesi, classici e contemporanei. Ecco cosa è “Torino di carta” (224 pagine, 17 euro) di Alessandra Chiappori, volume (nella foto di Radical Ging) pubblicato da Il Palindromo, da domani in tutte le librerie. Vi presentiamo in anteprima, per gentile concessione della casa editrice, un estratto dal primo capitolo, dedicato a Edmondo de Amicis
Per la vista degli occhi e della mente
Edmondo De Amicis
Certo, un Italiano che arrivi qui coll’idea di trovare una città uggiosa, e un po’ triste, come certi stranieri la definiscono – un villaggio ingrandito – un mucchio di conventi e di caserme – deve provare un disinganno piacevole, uscendo dalla stazione di Porta Nuova, in una bella mattinata di primavera. Alla vista di quel grande Corso, lungo quanto i Campi Elisi di Parigi, chiuso a sinistra dalle Alpi, a destra dalla collina, davanti a quell’infilata di piazze, a quelle fughe di portici, a quel verde rigoglioso, a quella vastità allegra, piena di luce e di lavoro, deve esclamare: – È bello – o tirare almeno uno di quei larghi respiri che equivalgono ad una parola d’ammirazione.
Quale effetto fa Torino su chi la vede per la prima volta? Se lo domanda Edmondo De Amicis in Ricordi del 1870-1871, rieditato nel 1889 come parte di Le tre capitali insieme a Firenze e Roma. Torino ha ancora lo spirito della capitale agli occhi dello scrittore: paragonata a Parigi per vastità, ha vissuto il Risorgimento e lo porta scritto sui monumenti, nella toponomastica e nelle consuetudini dei suoi abitanti. È una capitale che ha ceduto il ruolo, ma che è rimasta città viva, pulsante e bella: «in poche altre città i luoghi e i monumenti più memorabili si trovano meglio disposti per colpire tutt’insieme lo sguardo e la mente».
La Torino di De Amicis è una visione da cui partire per indagare la Torino di carta: lo scrittore la osserva per intero, la percorre mappandola, ne scopre i dettagli, ne conosce persone e tipi umani proponendone un ritratto che, datato fine Ottocento, appare ancora fresco. A bordo del tranvai, il suo sguardo individua e mette a nudo alcuni caratteri che, allora come adesso, rendono Torino riconoscibile tra architetture, luoghi, quartieri.
Costretto a star sempre dentro al carrozzone, scopro che riescono bellissimi, all’apparire improvviso del sole, certi prospetti della città, veduti nel vano delle due porticine che li racchiudono come in una cornice oscura, giovano all’occhio come il far cannocchiale della mano davanti a certi particolari d’un quadro. Quante piccole maraviglie!
Idea modernissima datata 1899, La carrozza di tutti – omnibus, appunto – è un libro ibrido, un racconto di personaggi dentro il racconto vivo di una città: De Amicis se ne serve per mappare Torino, ne restituisce itinerari, scorci, ne prende le misure tra centro, quartieri, cinta daziaria. Un intero anno, il 1896, passato a bordo, girovagando. Autentico viaggiatore urbano, da questa posizione privilegiata vede e racconta vie, palazzi, statue, chiese, persone ed eventi, raccoglie occhiate e propone analisi delle contraddizioni
sociali della Torino dell’epoca.
Una mappa dal tranvai
Il libro mi si disegnò nel pensiero lucidamente: scrivere quello che vedevo sul tranvai, giorno per giorno, per il corso d’un anno, dipingendo le persone più notevoli che v’avrei riveduto più sovente; rappresentare le relazioni e l’azione che esercitano una sull’altra, mescolandovisi, le varie classi sociali, senza forzare il vero ad alcun fine; ritrarre, insomma, il più fedelmente possibile, quella varia commedia umana, sparsa e sfuggente per quindici lunghissime linee, che, intersecandosi in cento punti, costituiscono nella circolazione generale della vita cittadina una circolazione più rapida, e quasi una vita volante al di sopra della popolazione che cammina.
Reportage, romanzo, guida: La carrozza di tutti nell’idea di De Amicis è «una modestissima Guida, ma scritta con amor di figliuolo
e di poeta, nella quale si succedessero di volo i quartieri, i monumenti, le memorie, le colline, le montagne, nella luce e nei colori diversi di ogni ora e di ogni stagione, come si succedono, fuggendo, allo sguardo di chi sta sul tranvai».
Nel 1896 le società di omnibus su rotaia trainati da cavalli in città erano la Belga e la Torinese, destinate a essere elettrificate da lì a poco, fatto che De Amicis non perde di vista collocando in tranvai un divertito ingegner Galileo Ferraris, intento ad ascoltare le paure popolari sull’arrivo dei cavi elettrici. In piazza Statuto, luogo dove lo scrittore abitò dopo la casa di via Micca (l’abitazione è la stessa di Emilio Salgari, come ricorda la targa al numero 18, ed è anche casa del cavalier Bianchini del Primo Maggio), si incrociavano e si incrociano oggi i mezzi di trasporto. La stazione di Porta Susa poco distante è la seconda della città, a fine Ottocento vi partivano i mezzi della via ferrata (ne farà uso Enrico di Cuore): oggi ingloba anche la stazione della metropolitana, e poco distante si trova il terminal bus.
Le linee al tempo di De Amicis sono quindici, l’autore le frequenta e le racconta tutte: quella di Vinzaglio, quella dei Viali, la linea del Valentino e quella del Foro Boario (nella parte occidentale di Corso Vittorio Emanuele II, oggi non più esistente), e ancora il tranvai del Martinetto (parte del quartiere di San Donato), quello della barriera di Nizza e di Casale. Eccolo in azione:
Svolta il carrozzone nell’ariosa e romita piazza Venezia, riesce per via Alfieri dietro al gran cavallo morente del duca di Genova in
mezzo ai palazzi multicolori di piazza Solferino, passa accanto al La Farina pensieroso, corre lungo l’Arsenale fumante e sonoro, e aperta la folla chiassosa delle scolaresche di via Oporto, e salutato in piazza San Quintino il vecchio Paleocapa sonnecchiante sulla sua poltrona di marmo, sbocca nell’allegra ampiezza di corso Vittorio Emanuele.
Paleocapa è ancora lì, nella piazza che oggi si chiama come lui, e anche se piazza Venezia non esiste più, soffocata dai palazzi, e
corso Oporto ha preso nel Novecento il nome di Corso Matteotti, non è difficile visualizzare i tragitti snocciolati da De Amicis. Solo, per le strade non ci sono cavalli, spesso nemmeno i binari dei tram, e talvolta le vie sono interdette al traffico.
Accade che De Amicis sia così affascinato dal movimento del tranvai attraverso la città da descriverne per intero la traiettoria.
Succede per la linea del Ponte Isabella, che confessa essere la sua preferita:
Attraversato il centro della città, e percorso un gran tratto di quella interminabile via Cristina di cui sfugge il fondo allo sguardo, si
svolta nel viale ridente di Raffaello, e di là si esce all’aperto, fra la fuga dei nuovi edifici universitari, ai quali i camini altissimi dalla forma di minareti danno l’aspetto d’un enorme falanstero orientale, e l’ultimo lembo del grande parco del Valentino, che si ristringe lungo la riva e va a finire con un bacio nel fiume.
Se qui siamo su corso Massimo d’Azeglio, alle spalle del quartiere di San Salvario, va specificato che i cocchieri all’epoca transitavano anche per via Dora Grossa, oggi la pedonale via Garibaldi, lungo rettilineo tra le Alpi e Palazzo Madama, e scendevano verso il Po, lungo corso Cairoli, svoltando dove oggi passa il tram in via Bonafus, salutando il Conte Cavour nel suo monumento di piazza Carlina – piazza Carlo Emanuele, già allora chiamata, come da inossidabile abitudine torinese, con l’appellativo dato al sovrano effeminato – e infilandosi in via Maria Vittoria e in via Lagrange.
Di una città che descrive in lungo e in largo con le sue nervature, De Amicis segnalerà anche i confini, percorrendo diversi tragitti
fino ai capolinea – le barriere di Nizza, o di Casale – che portano in scenari di aperta campagna nei pressi della cinta daziaria torinese, spazio dove nel Novecento sono cresciute le periferie di Mirafiori, Vallette, Falchera, Barriera di Milano, mondi della soglia urbana in costante ridefinizione rispetto al centro.
Sopra un immenso scacchiere
La città par fabbricata sopra un immenso scacchiere […] si può camminare a occhi chiusi: non c’è da sbagliare; ogni tanti passi, riaprendo gli occhi, si vedranno due interminabili vie diritte a destra e a sinistra, l’una chiusa dalle Alpi, l’altra chiusa dalle colline.
È facile prendere le misure a una città se la sua mappa è costruita sugli antichi cardo e decumano, geometrica e razionale. Ecco
perché sono vivide le pagine dedicate ai quadri della scacchiera, i borghi e quartieri, «ciascuno dei quali ha un carattere suo proprio, non abbastanza osservato, forse, neppure dagli stessi Torinesi».
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