Il mistero insondabile dell’animo umano è affrontato da Nadia Fusini nella sua ultima novella, “Marìa”, con una prosa elegante che trasuda sentimento: il racconto di una donna umile e docile, di un amore masochista, di un’anima da guarire, della difficoltà di distinguere bene e male
Il nuovo libro di Nadia Fusini, Marìa (131 pagine, 13 euro), pubblicato da Einaudi, è un viaggio nei meandri dell’anima di una donna che subisce la violenza del marito; negli anfratti di un cuore che vive in perenne oscillazione tra amore e paura. Il titolo della novella, ispirata da un caso di cronaca nera avvenuto realmente decenni fa, definisce il personaggio principale: una donna umile, docile e composta si palesa nella stanza della questura per confessare un omicidio che non è opera sua, ma del marito Giovanni. Marìa lo ha conosciuto nel paese in cui è nata, Malo; nonostante la diffidenza della sua famiglia, ha deciso di seguirlo in un un’isola della Sicilia non ben precisata con la quale ben presto stringerà un rapporto indefinibile e misterioso.
Prigioniera di un amore sbagliato
Sull’isola diventa prigioniera di un amore sbagliato, di un uomo che ha in serbo per lei soltanto soprusi e violenza, ma qui conosce il mare e se ne innamora, associandolo alla libertà. L’io narrante della storia, il poliziotto Santini, prende per mano il lettore e lo conduce nella coscienza della donna « […] nella voce ho subito riconosciuto la qualità che più conta per me in una voce: l’umanità. Aveva una voce umana […] Riusciva a raccontare quello che raccontava – cose angosciose, tremende, senza perdere la sua umanità ». Ciò che è emerge è il racconto di un’odissea, di un amore masochista e di un legame a doppio filo con il proprio carnefice, complicato e difficile da spezzare.
Non distinguere tra bene e male
Nella struttura della storia è evidente che il punto chiave è il conflitto tra il bene e il male, ma ancora più evidente è che tale conflitto si realizza nella psiche della nostra protagonista, incapace di distinguere l’uno dall’altro al punto che diventa quasi impossibile capire se è vittima o complice del carnefice. «Ho amato la sofferenza, in Giovanni mi sono innamorata del dolore» racconta Marìa con il tono implacabile di chi non si perdona. Una vera e propria tolleranza del dolore che finisce per confondere la linea di demarcazione tra due passioni ugualmente intense, l’amore e l’odio. Accetta persino il tradimento del marito con Rosalia, verso la quale non riesce a provare rancore, ma solo pietà per quella «prigione» condivisa. Qui si consuma l’omicidio compiuto da Giovanni contro “l’amante della sua amante”, al quale è costretta ad assistere per volontà e crudeltà della stesso marito.
Abitudine alla ferocia e possibile riscatto
Marìa è una donna che, pian piano, si abitua alla ferocia, in quanto unica forma di legame con l’uomo che la prende con forza, mentre lei non riesce a non provare piacere per questo tipo di amore, l’unico che conosce. Ma ogni coscienza ha i suoi tempi e solo generando una nuova vita, lasciando spazio a una nuova esistenza dentro di sé, la nostra protagonista riesce a trovare la forza di opporsi al male. La gravidanza diventa possibilità di riscatto, di rinascita, di scoperta di un sentimento puro e innocente. È questo il climax, il momento culminate della storia, il punto in cui si accumula la maggiore tensione narrativa perché Marìa è costretta a lottare contro un marito che non vuole il figlio e tenta di ucciderla con la nuova vita in grembo, la costringe a partorire in clandestinità e fa sparire la nuova vita. È a questo punto che si presenta in questura per confessare.
La funzione della sofferenza
Nella seconda parte del libro il lettore entra quasi di prepotenza nella psiche della protagonista: qui, le parole e i pensieri di Santini, l’io narratore, si intrecciano con quelli del diario della donna che non si ama, ma impara ad amarsi solo attraverso il figlio perché «una madre nasce dal figlio». Il grande tema del libro di Fusini non è solo la violenza sulle donne e il ruolo di quest’ultime all’interno di una relazione insana, ma anche il dolore e la funzione che esso svolge nella nostra esistenza. Spesso ci dimentichiamo di quanto sia naturale e di come si manifesti sempre con uno scopo elevato: quello di scoprire se stessi o una parte di noi che necessita di essere guarita. È ciò che accade a Marìa che, attraverso la sofferenza, impara a conoscersi, a guarire la sua anima ammalata di «non amore» ed è ciò che colpisce Santini in questa triste storia, ovvero la resistenza di una donna che non si lascia incattivire dal dolore e mantiene intatta la sua umanità « Ha sopportato la violenza, ha amato, odiato, ma non si è corretta». E’ questa un’affermazione di una vastità e di una complessità di cui il lettore si rende conto man mano che si addentra nel libro e che evoca la famosa citazione «Pathei Mathos» («conoscere attraverso il dolore») espressa nell’Agamennone di Eschilo
La storia di una mutazione
La prosa di Nadia Fusini, elegante e appassionata, trasuda sentimento. Espressioni cariche di pathos giungono dritte, come frecce scagliate che si conficcano nella carne e raccontano la storia di una mutazione, «la mutazione nascosta e misteriosa di una ragazza in donna, una donna che s’era smarrita e poi s’era ritrovata». Gli spunti di riflessione convergono tutti sulla protagonista: l’amore e le passioni sbagliate e l’amore puro e innocente della maternità, la difficoltà di distinguere il bene dal male, nonché la distinzione tra la giustizia umana e la giustizia dei tribunali. Nadia Fusini dimostra una grande abilità nell’affrontare il mistero dell’animo umano, spesso inesplorabile.
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