La badante di Cereda fra barriere e lati oscuri

 

Una maestra vedova e in pensione, che si ritroverà a lavorare di nuovo, è la protagonista di “Quella metà di noi”, romanzo di Paola Cereda. Una donna che porta con sé un segreto, che si muove da un quartiere simile a molte periferie, che si riscatta tardivamente contro la brutalità del denaro, il dolore della malattia, l’amore passato…

C’è un quartiere di Torino che ha un nome irresistibilmente particolare: Barriera di Milano. Siamo a nord della città, in una zona di periferia e forzati attriti tra etnie, migrazioni sovrapposte che si mescolano al paesaggio urbano, sonoro, olfattivo. Un posto del genere è un banchetto per uno scrittore, e Paola Cereda ha deciso di ambientare proprio lì il suo ultimo romanzo, Quella metà di noi (222 pagine, 15 euro), pubblicato da Giulio Perrone editore.

Linea di confine

«Barriera è una parola che condiziona le esistenze. Ci sono barriere che dividono e altre che difendono, esistono barriere che rassicurano e altre che decidono chi sta dentro e chi sta fuori, che cosa è simile e cosa, invece, è differente». Non c’è miglior riassunto per descrivere un quartiere che reca nel nome la propria essenza. Quella metà di noi è infatti fin dal titolo un romanzo di metà e di doppi, e non potrebbe trovare ambientazione più adatta di un quartiere dalla storia complessa, stratificata, che porta nel nome l’idea di una limitazione, a segnalare un dentro e un fuori.

Matilde Mezzalama, la protagonista, è una maestra in pensione, vedova, che vive a Barriera ma lavora come badante in centro. Ogni giorno scavalca, in bus, la linea di confine che separa i due mondi, la linea geografica forse più nitida al centro di un intero universo fatto di doppie facce, di lati a volte opposti, di realtà e di apparenze che si accoppiano in soggetti complessi.

Segreti da non svelare

La storia della protagonista parte da un segreto che si porterà dietro per tutto il romanzo, lasciando il lettore in attesa di indizi, segnali per capire. È uno svelamento lento, che accompagna le vicende di una donna colpevole solo di aver obbedito a una metà di sé. Sarà infatti proprio per questo capriccio, immediatamente relegato alla dimensione del segreto, che Matilde si ritroverà, pensionata, a lavorare di nuovo. Lo farà a stretto contatto con una persona malata, non più in grado di gestire al cento per cento le proprie facoltà. Una persona che, di nuovo, nasconde un segreto. Tutti i personaggi di questo romanzo hanno storie stratificate e zeppe di lati oscuri, di metà non dette per vergogna personale, sociale, per esigenza di discrezione, per non essere giudicate. Il dito inquisitore è infatti una spada di Damocle sopra le teste delle esistenze che ruotano intorno a Matilde: è proprio sua figlia, sprezzante e ipocrita, la più crudele giudice. Il guizzo che rende Matilde un personaggio simpatico, ottenendo dal lettore fiducia, è il rendersi conto dell’indicibilità della metà nascosta, ma non per questo far finta che non esista. Matilde non si pone barriere: il suo muoversi dalla periferia al centro sancisce proprio la sua mobilità, il suo sguardo aperto.

Sul prendersi cura

Se l’empatia con la protagonista cresce pagina dopo pagina in ragione della sua complessità e della sua benevolenza che, scoperte metà nascoste di altri personaggi – dall’ingegner Dutto, il suo paziente, colpito da un ictus, alla moglie e persino alla badante rumena -, non succede così per la figlia. Sono duri i colpi inferti a una donna che custodisce un segreto del quale si prende cura con la stessa tenerezza che usa nei confronti dell’ingegner Dutto e della sua storia, che piano piano emergerà dal passato. Contraltare alla violenza del giudizio, in questo romanzo, è infatti proprio la cura, una dimensione che Paola Cereda scava su più piani. Cura di sé, cura per l’altro, cura per chi è costretto a curare gli altri. Matilde stessa, chiusa in una dimensione che spesso brucia di solitudine estrema, incomprensione, etichette sociali, ma anche la moglie di Dutto e la badante straniera. Ogni personaggio in scena cura o ha curato, ognuno ha bisogno della carezza di qualcuno capace di accogliere quella metà, quella che non si può dire, che non si sa.

Una storia che si interroga

E alla fine? Alla fine Matilde unirà le sue due metà, quella di sessantacinquenne di Barriera e quella di persona libera, una sorta di riscatto tardivo contro la brutalità del denaro, il dolore della malattia, l’amore passato e tutte quelle doppie facce di un mondo che, scavando poco sotto la superficie di una mappa urbana, si scopre brulicante di contraddizioni, complessità e duplicità. Una coralità di vite umane che, sparse per Torino, finiscono per rientrare tutte nella metafora geografica rappresentata da un quartiere che, come tante periferie, riunisce insieme tutte le metà del mondo in un tessuto di trame e orditi mai uguale a se stesso. È in questo tessuto – nel testo letterario – che Paola Cereda lancia il suo interrogativo sulle metà di noi, sui segreti e le relazioni. Al lettore, la piacevole sensazione di inciampare nel dubbio, pregio di ogni storia capace di guardare oltre i confini della consuetudine.

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