Una conversazione con un rapsodo dei nostri tempi, Paolo Albani, autore de “I sogni di un digiunatore e altre instabili visioni”: “Nel bene e nel male le storie di uno scrittore riflettono sempre una parte di sè. Siono un pessimo sognatore, ma qualche storia mi arriva nel sonno…”
Fra gli innumerevoli giochi che è possibile fare con le parole, l’acrostico su di me ha avuto sempre una particolare fascinazione. È quel componimento che se leggi le prime lettere di ogni verso ti accorgi che formano il titolo di una poesia o il nome di una persona o chissà che altro. Faccio subito un esempio: ANCORA/ LA/ BELLEZZA/ AIUTA/ NOVITÀ/ IMMEDIATE. Che leggete? Albani? Sì, è lui! Albani, Paolo. L’autore di quell’incredibile raccolta di racconti pubblicata qualche mese fa da Exòrma col titolo I sogni di un digiunatore e altre instabili visioni (306 pagine, 15,50 euro).
Scritto da Giuseppe Chiari nel 2000, mai acrostico fu più significativo per entrare dentro l’opera di uno scrittore. Perché nelle storie di Albani, nella loro originale invenzione frutto di idee spontanee immediate talora paradossali, la bellezza del narrare ti travolge e lascia che il corso degli eventi ti conduca dove vuole. E quasi sempre quel dove è sull’orlo del precipizio del possibile.
Quando comincerete a leggere questa conversazione, vi accorgerete presto che non è un’intervista. Le mie domande non sono che pretesti perché Albani continui ancora a raccontare. Per due giorni, oggi e domani, su queste pagine, avremo la possibilità di sentire la voce di un rapsodo dei nostri tempi. Che cuce le sue storie per stupirci della nostra realtà che mai potremmo pensare così fantasmagoricamente.
Nell’Avvertenza del suo libro, I sogni di un digiunatore, scrive che ogni tanto si calerà nei racconti col suo vero nome, quello anagrafico, Paolo Albani. La scelta di un nome e di un cognome da usare in una narrazione, dice qualcuno, deve racchiudere una tonalità dominante, capace di trascinare la storia verso una specie di scatenamento immaginativo. Paolo Albani, come nome e cognome, che tonalità dominante ha e quale scatenamento immaginativo produce?
«Nell’Avvertenza al libro metto le mani avanti, dichiaro che le disavventure di cui si parla in questi racconti non sono accadute a me, di persona, ma in un certo senso è come se lo fossero, inutile negarselo, e ciò in base al principio, non codificato, che “Madame Bovary c’est moi”. Insomma, voglio dire semplicemente che, nel bene e nel male, nelle storie raccontate da uno scrittore si riflette sempre una parte di sé, c’è il suo modo di approcciarsi alla realtà, di leggerla, di viverla. È una parte a volte negativa, non condivisa, non accettata, che mette in luce, sia pure attraverso una lente deformante, le personali contraddizioni che lo scrittore vive e soffre, le sue incertezze, velleità, illusioni.
In un certo senso mi piace pensare che i personaggi dei miei racconti-bonsai sono delle varianti di un possibile, potenziale mio alter ego. Anche quando si tratta di un personaggio politicamente scorretto. Del resto, non credo ci sia bisogno di scomodare il dottore viennese o Pirandello per suffragare l’idea che convivono dentro di noi personalità diverse, diverse sfumature di soggettività, a volte in conflitto.
I nomi dei personaggi sono importanti. Prima di sceglierli ci rifletto molto, mi devono convincere, in qualche modo devono essere appropriati al vissuto del personaggio, rispecchiare le sue qualità e difetti. Faccio un esempio: un personaggio di un mio racconto è un maniaco dell’ordine, ama la precisione in modo esagerato, opprimente. Ecco ho pensato di chiamare questo personaggio Perso Arrangiàti, mi suonava bene, era il nome giusto per uno di quello stampo.
Quanto al mio nome e cognome è abbastanza banale, in primis fa venire in mente i colli romani, l’Albania, una famiglia che dette i natali a un papa, Papa Clemente XI, nato Giovanni Francesco Albani, insomma cose del genere; se avessi un altro nome e cognome, non chiamerei mai un mio personaggio in quel modo, Paolo Albani, mi guarderei bene dal farlo.
Ricordo che una volta a Mantova, l’assessore alla cultura mi disse: Caro Albani, noi abbiamo qualcosa in comune. Cosa? chiesi io, incuriosito. Il nome. Ah, risposi, perché lei come si chiama? Banali, disse l’assessore alla cultura. Scoprii così che l’anagramma del mio nome è Banali. Un nome non certo esaltante e adeguato al ruolo di un assessore alla cultura, pensai dentro di me. Mi auguro che questa storia dell’anagramma del mio cognome non si sappia troppo in giro».
Franz Kafka coi suoi racconti ha reso celebre la figura dell’artista del digiuno; lei, nei suoi, parla dei sogni dell’artista del digiuno che precedono l’inedia. Su Kafka la figura del digiunatore funzionava da specchio, rifletteva l’immagine dell’artista della scrittura. Parallelamente mi verrebbe da chiederle: Paolo Albani, prima di iniziare a scrivere un nuovo libro, che sogna?
«Il digiunatore di cui parlo in un racconto del mio libro (che poi è quello che dà il titolo al libro stesso) è veramente esistito, si chiama Giovanni Succi, nato a Cesenatico nel 1850 e morto a Scandicci (Firenze) nel 1918. La vita di questo famoso digiunatore di professione (è citato anche in un romanzo di Salgari) è avventurosa. Da giovane Succi contrae in Africa una brutta febbre che gli danneggia il fegato e lo costringe a non mangiare per un lungo periodo durante il quale, con sua grande meraviglia, si sente, invece che spossato e depresso, rinvigorito al punto da compiere marce di nove o dieci ore senza sosta. Questo stato di salute gli fa balenare l’idea che in lui si sia reincarnato lo spirito del leone che lo rende praticamente invulnerabile. Tornato in Italia espone la sua idea (del leone reincarnato) a alcuni circoli spiritisti di Roma, i quali però la accolgono con molto scetticismo. A questo punto Succi si reca al Cairo dove inizia una serie di prove di digiuno accompagnate da libagioni di veleni e da folli corse sul monte Ataka che durano fino a nove ore consecutive. Il console d’Italia, allarmato per quelle strane manifestazioni, incarica un noto psichiatra di visitarlo e la diagnosi è: paranoia ambiziosa. Così nel 1885 Succi viene internato in un manicomio. Una volta dimesso dal manicomio, Succi va a Forlì, dove si esibisce in un digiuno di quattordici giorni sotto il controllo di un comitato di cittadini. I giornali di provincia se ne occupano affermando che il suo segreto consiste in un filtro magico portato da oltremare. Succi sfrutta la situazione e fabbrica una bevanda «miracolosa», «un anestetico, o un torpente, o un ipnotico» forse a base di foglie della coca o, come qualcuno insinua, un semplice miscuglio di acqua e zucchero. Nel novembre del 1886 a Parigi, grazie all’interessamento di un impresario che forma un comitato medico di sorveglianza, Succi, incentivato anche dal fatto che ci sono 15.000 franchi in palio, digiuna per trenta giorni. Ma il suo record viene oscurato perché nello stesso periodo, sempre a Parigi, un giovane pittore italiano, tale Stefano Merlatti, anche lui «artista della fame», arriva a digiunare per cinquanta giorni (c’è chi ipotizza che Franz Kafka si sia ispirato a Merlatti per scrivere Un artista del digiuno). Una luce non proprio positiva sulla carriera del Succi (ma forse si tratta solo di una maldicenza, che per altro me lo rende ancor più simpatico) è quella gettata dalle affermazioni di un medico che sostiene di aver sorpreso il Succi, durante un’esibizione all’Hotel Royal di Vienna nel 1896, a pasteggiare con bistecche e champagne. Il segretario di Succi (erano talmente ben pagati i digiunatori a quei tempi che si potevano permettere anche un segretario) racconta che, quando Succi digiunava in pubblico, gli dava delle lettere di ammiratori da leggere, solo che sui fogli il segretario aveva spalmato dell’estratto di carne così che il nostro digiunatore, mentre sfogliava quelle lettere, inumidendosi le dita, assorbiva un po’ di quell’estratto.
Faccio un inciso: l’altro giorno un mio cugino (che ha più di 80 anni) mi ha raccontato che si ricordava di aver sentito sua madre e mio padre usare l’espressione: «Che fai il Succi?», detta in situazioni in cui qualcuno, a tavola, si mostrava svogliato e non aveva appetito; questo a testimonianza della fama raggiunta dal digiunatore Succi.
Mi sono imbattuto nel digiunatore Succi grazie a un libro sui sogni uscito nel 1899, scritto dallo psichiatra e psicologo Sante De Sanctis (1862-1935), recensito da Giorgio Manganelli in un breve testo dal titolo bizzarro: Sogna più l’uomo o il coccodrillo? De Sanctis riporta gli studi di coloro che si sono occupati del problema se i pesci sognano, e in quale modo, arrivando a concludere che i pesci fanno sogni scadenti, o di un altro che ha accertato che i coccodrilli sognano, o di un altro ancora che ha indagato sulla sensibilità meteorologica dei ragni e sulle loro bizze psichiche. De Sanctis racconta di aver tenuto un diario dei sogni del Succi durante il digiuno di 20 giorni che quest’ultimo fece a Roma, dal 18 dicembre 1893 al 7 gennaio 1894. Succi – scrive De Sanctis – non risogna mai, durante i suoi digiuni, l’emozione della fame.
Sul piano dell’esercizio della scrittura, il digiuno può essere interpretato come una metafora della brevità: non a caso, in esergo al mio libro, ho messo un aforisma di Stanisław Jerzy Lec che recita: «Siamo brevi, il mondo è sovraffollato di parole». Ecco se dovessi consigliare una dieta stretta a un giovane scrittore per mantenersi in forma (stilistica), prima di cimentarsi nel racconto o nel romanzo, gli direi di scrivere per alcuni mesi degli epigrammi e dei mottetti a colazione, un limerick fuori dei pasti e non più di tre, quattro aforismi al giorno.
Per venire infine alla tua domanda: cosa sogno prima di scrivere un libro? A parte il fatto che sono un pessimo sognatore, nel senso che ho difficoltà a ricordare i miei sogni (più che un sognatore potrei definirmi un «rimovitore di sogni»), qualche volta mi è capitato che una storia mi sia venuta nel dormiveglia, o più di frequente, durante il sonno, che mi siano affiorate alla mente delle correzioni o aggiunte da fare a un mio testo scritto il giorno prima. Credo che questo rientri nel normale travaglio, nel lavorìo incessante che accompagna la stesura di un testo: uno scrittore non smette mai di pensare a quello che scrive, da sveglio e da addormentato. Non esiste «un fine orario» nel lavoro dello scrittore.
Forse per quanto riguarda i sogni dovrei rivolgermi al personaggio di un mio racconto, Anna Bachmann, una paziente dello psicanalista Friedrich Rhümkorf, allievo di Freud, che per molti anni ha esercitato a Graz. Dattilografa in una piccola fabbrica di laterizi, la Bachmann possiede doti speciali di sognatrice: di notte è in grado di sognare qualsiasi storia le abbiano raccontato da sveglia; riesce a riprodurla pari pari in sogno, senza dimenticarsi nulla, mantenendo l’esatta successione degli avvenimenti così come le sono stati descritti dai poveretti che vanno da lei perché incapaci di sognare in proprio». (1-continua)
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