Un reduce della fallita rivoluzione libica si ricicla come scafista e poco importa se portare avanti la sua personale rivoluzione significa perpetrare nefandezze, omicidi e stupri. Il primo romanzo della reporter Francesca Mannocchi, “Io Khaled vendo uomini e sono innocente” inquadra un carnefice senza scrupoli che in patria è però considerato un benefattore…
«We came, we saw, he died». Era il 20 ottobre del 2011 e l’allora segretario di Stato americano, Hillary Clinton, commentava così la notizia della morte del Raìs libico, il colonnello Gheddafi. A distanza di nove anni dallo scoppio del conflitto, l’unica cosa certa è che il vento della rivoluzione che ha soffiato sulla Libia ha spazzato via il desiderio di libertà, trasformando uno dei Paesi più sviluppati del Medio Oriente e Nord Africa in Stato fallito. Francesca Mannocchi, reporter e documentarista, nel suo romanzo di esordio Io Khaled vendo uomini e sono innocente (195 pagine, 17 euro), pubblicato da Einaudi, nella collana Stile Libero, ci racconta il fallimento della rivoluzione araba del febbraio del 2011 che ha mutato la terra libica in crocevia del traffico di esseri umani dall’Africa sub-sahariana verso l’Europa.
Rivoluzione tradita e Libia tra caos e atrocità
Gli oppositori al regime di Gheddafi non hanno mai celebrato il “giorno della liberazione”, lo racconta in prima persona il protagonista del romanzo, la cui voce narra gli orrori dell’odierna Libia. Che ne è stato dei “rivoluzionari falliti”? Alcuni sono diventati trafficanti di esseri umani, come Khaled, il personaggio a cui è affidato il compito di mettere in luce le zone d’ombra di un Paese che vive tra caos e atrocità. Mannocchi sceglie di raccontare le radici profonde del traffico di uomini, un fenomeno complesso, e le racconta da un punto di vista diverso e scomodo, quello di chi si è adattato, a suo modo, ai mutamenti catastrofici del Paese.
I libici non hanno mai compreso fino in fondo il significato della parola «libertà»: la dittatura è rimasta nella loro testa. Sono «camaleontici», così li descrive Khaled: mutano pelle e si mimetizzano, ma le persone che riempivano la piazza nel febbraio 2011 non possono essere di colpo diventate tutte rivoluzionarie. «Ubriachi di libertà», dopo gli effetti passeggeri della sbornia, è rimasto il caos.
«…che ne sapevano noi della libertà, noi che non eravamo mai stati liberi, e proprio perchè non eravamo mai stati liberi non sapevamo di essere schiavi»
Due generazioni a confronto
Che fine hanno fatto le speranze di cambiamento, progresso e libertà dopo essere state tradite? Khaled, per esempio, è diventato uno scafista; ha continuato ad imbracciare un fucile non più per un ideale, ma per se stesso: in fondo vuole solo «guadagnare» i soldi necessari per acquistare una casa in Turchia, cosa importa se manda a morire donne e bambini.
I crimini commessi a sangue freddo sono stati scambiati per una rivoluzione, mentre la morte dei seguaci di Gheddaffi è stata considerata giustizia. Adesso porta avanti la sua personale rivoluzione, continuando a perpetrare nefandezze, omicidi e stupri, cercando alibi: «Almeno io non mi sono seduto in un ministero, tra i riciclati. Ho scelto il lavoro sporco, sono più onesto». Si arricchisce sulle spalle degli africani e dei siriani per necessità: è stato un combattente delle milizie di Misurata e ha visto morire in battaglia l’amato fratello, ma non ha voluto far parte della schiera di vincitori che hanno chiesto come risarcimento la poltrona in un ministero.
Francesca Mannocchi conosce bene la Libia e i cambiamenti che hanno attraverso un Paese ormai diventato campo di battaglia. Racconta due generazioni di libici a confronto, quella di Khaled e del padre a cui non perdona il suo essere stato camaleonte, tradendo amici e parenti, ma soprattutto la voglia di libertà e di democrazia di giovani che, alla fine, tra il bene e il male hanno scelto quest’ultimo.
«Resta poco e niente della rivoluzione, papà. E sai perchè? Perché i libici sono quasi tutti come te. Non sanno fare niente. Perché erano sudditi e adolescenti, e sono rimasti terrorizzati, come allora. Quindi, sì, papà, mando le persone ad attraversare il mare sui gommoni, ma mi sento più forte di te»
La scelta tra il bene e il male
La scelta di Khaled è spacciata per eroismo perché ha deciso di restare nel suo Paese nonostante tutto. Se per il resto del mondo è un carnefice, in Libia, o almeno in una parte del Paese, è considerato un benefattore perché dà lavoro a chi piange miseria, a chi non ha soldi per acquistare un generatore (solo chi ha elettricità può sentirsi ricco). Si sente innocente, ma la sua coscienza dice altro: Fouzieh, la donna siriana di Homs che si è rivolta a Khaled per attraversare il mare, va da lui quasi ogni notte per turbare il suo sonno, con il piccolo figlio Bilal che non sa nuotare e non ha il salvagente. Un racconto straziante che costringe il lettore a guardare la vicenda da una nuova angolazione per comprendere un fenomeno che è molto più complesso di quello che vogliono farci credere. Dietro il racconto in prima persona del protagonista c’è la storia di un Paese che non è mai stato liberato, ma ha visto mutare lo stato di sudditanza. Un Paese che ha tradito le speranze fino ad anestetizzare l’anima di chi considera gli africani il vero oro nero della Libia e si arricchisce con il traffico di esseri umani. A Khaled non è mai piaciuto il mare, ma nella schiuma delle onde c’è la sua fortuna: la sua vita affonda nella sabbia del deserto, quel lembo di terra che scavano per estrarre petrolio, mentre i libici continuano a morire di fame.
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