Nuova puntata da Lusoteca, protagonista uno dei più interessanti autori sudamericani, Ruffato, e il suo “Sono stato a Lisbona e ho pensato a te”, storia di un immigrato brasiliano in Portogallo, che affronta la clandestinità e una realtà diversa da quella che sognava
Luiz Ruffato é nato nel 1961 a Cataguases (Brasile, stato di Minas Gerais). Di origini umili, si laurea in comunicazione e inizia una carriera come giornalista a São Paulo. Acclamato dalla critica come uno degli scrittori più interessanti del panorama letterario nazionale, introduce nella letteratura brasiliana contemporanea una nuova corrente che si propone di indagare tematiche poco discusse come l’immigrazione, l’interculturalità e la disuguaglianza sociale.
Persone comuni
Nei suoi romanzi racconta di persone comuni, oppresse da una realtà quotidiana che non offre prospettive. Le sue storie non si svolgono, a differenza di molti romanzi brasiliani, nelle grandi metropoli ma in piccole cittadine come Cataguases, e mettono a nudo la violenza, il razzismo e la disuguaglianza sociale del Brasile di oggi.
Un migrante tra pregiudizi e povertà
Nel romanzo Sono stato a Lisbona e ho pensato a te (96 pagine, 12 euro), edito in Italia da La Nuova Frontiera, Sérgio de Souza Sampaio, originario di Cataguases, decide di trasferirsi a Lisbona, convinto che il Portogallo possa garantirgli la tanto agognata ascesa economica. In Portogallo Sérgio convive con i pregiudizi nei confronti dell’immigrato brasiliano, deve fare i conti con la competizione accanita tra stranieri (principalmente dell’est Europa) e dovrà affrontare la povertà e la clandestinità che a poco a poco distruggono le sue ingenue speranze. Nella storia di Sérgio si riflettono le voci di molti altri migranti, alle prese con una realtà ben diversa da quella sognata, tra pregiudizi, povertà e possibilità sempre più remote di fare ritorno in patria.
Non essere sepolti dove si è nati
«…mentre riempivo il mio modulo, guardavo quei poveri diavoli, africani, arabi, indiani, una babele di razze e colori, che si infilavano in due o in tre nella stessa cabina telefonica, gridando, piangendo, una volta, verso Natale, una signora africana, bassa e grassa, con un vestito fantasia, i capelli che cominciavano a farsi bianchi, svenne durante una telefonata, la soccorremmo, comparve una sedia, un bicchier d’acqua, un ventaglio, quando si riprese, sbattendo i piedi per terra, le pupille degli occhi gridarono la disperazione in un portoghese storpiato che nessuno capiva ma che tutti indovinammo, lo sconforto dell’immigrato che sa che questa vita non serve a nulla se non possiamo neanche essere sepolti dove siamo nati…».
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