Silvia Avallone è una degli ambasciatori della Bur, che compie 70 anni. Un’occasione per parlare di sette titoli del cuore (sei classici e il contemporaneo Tallent), del prossimo romanzo, dei libri ai tempi degli smartphone: “Credo nel valore etico e civile della lettura, che può farci diventare cittadini più generosi e consapevoli, ci aiuta a metterci nei panni degli altri, al servizio di una comunità”
Silvia Avallone è una dei dieci scrittori che andranno in giro per l’Italia, raccontando i propri sette Bur del cuore, in occasione del 70° compleanno della Biblioteca Universale Rizzoli, storica collana di tascabili, pezzo di storia, a cui l’Italia del dopoguerra si aggrappò. Palermo è la tappa di Silvia Avallone, quasi trentacinque anni, tre romanzi in nove anni («Acciaio», «Marina Bellezza», «Da dove la vita è perfetta»), tradotti in tutto il mondo. Dal 1949 a oggi la Bur ha cambiato pelle più volte, restando una delle poche certezze librarie nella fascia economica: in origine furono volumi grigi, spartani («grappa quotidiana di un giovane alcolizzato» per Giorgio Manganelli), nel formato 10,5 x 15,7 cm, primi titoli I promessi sposi di Manzoni, Teresa Raquin di Zola e Il fantasma di Canterville di Wilde; venduti a un prezzo contenuto, secondo un sistema modulare (50 lire ogni 100 pagine). La tiratura iniziale – quella media in Italia era di 3.000 copie – era di 10.000 esemplari, che in breve triplicò e si stabilizzò a 50.000 tra gli anni Settanta e i Novanta. La lista di Avallone comprende grandissimi classici (Delitto e castigo di Dostoevskij, Edipo re di Sofocle, L’educazione sentimentale di Flaubert, Anna Karenina di Tolstoj, Bel-Ami di Maupassant, I viceré di De Roberto) e un giovane contemporaneo statunitense, Gabriel Tallent con Mio assoluto amore.
Avallone, tra Francia e Russia, fa scelte inequivocabili. Imprescindibili per lei quei romanzi ottocenteschi?
«Ho messo giù una lista di titoli che mi hanno formata, l’ho fatto con grande istinto, più che con un criterio ragionato. È un percorso dedicato ai classici, a cominciare da Sofocle, perché un tema che mi è molto caro è quello delle colpe dei padri che finiscono per impattare sui destini dei figli. Il mio grande assoluto amore della vita è il romanzo che nasce nel diciannovesimo secolo, come affresco anche solo di un pezzetto di società del tempo, in cui sono interconnesse la dimensione individuale e sociale».
Tra le sue scelte l’unica italiana, siciliana, è I viceré di De Roberto, opera grandissima, ma sottovalutata, finita nell’ombra, che forse sconta il fatto di non avere l’appeal mitico-cinematografico de Il Gattopardo…
«Avrei potuto indicare Verga, ma ho preferito apposta De Roberto. Ho pensato che il suo straordinario romanzo è di un’attualità spiazzante, meriterebbe tutt’altra fortuna, una riscoperta, anche rispetto ad altri classici che sono letti nelle scuole».
Tra i suoi magnifici sette, in mezzo ai giganti, c’è anche un giovane americano. Perché?
«È la mia più grande scoperta dell’anno scorso. Tallent ha trent’anni e ne ha impiegati otto per scrivere il suo esordio, che ha già in sé l’epica di un classico. Affronta un tema devastante, l’incesto, che forse può allontanare il lettore. Ma non cade mai nel morboso o in qualcosa di fine a se stesso e spiacevole, lo inquadra con umanità e grazia. Mi ha fatto sobbalzare dalla sedia».
Cosa ruberebbe, se potesse, a uno di questi maestri?
«La mia è una dichiarazione emotiva. Per me nessuno come Dostoevskij è riuscito a usare la forma narrativa del romanzo per addentarsi così tanto nella contraddizione dell’essere umano e nella vita nel suo essere irriducibile. Questa grandezza, non oso nemmeno pensare di potergliela rubare, ma è all’origine della mia passione di lettrice e della conseguenza, che è la scrittura».
I 70 anni della Bur cosa possono ricordarci al tempo degli smartphone e deli bassissimi indici di lettura di noi italiani?
«Una preziosa ovvietà, smarrita negli ultimi decenni, cioè che il libro è un oggetto rivoluzionario. È quel passatempo economico che ci dà la possibilità di vita vivere la vita degli altri, di non pensare a noi solo come i figli una famiglia, di un quartiere, di una città. Ci ricorda il valore etico e civile della lettura, che può farci diventare cittadini più generosi e consapevoli, ci aiuta a metterci nei panni degli altri, al servizio di una comunità. Sogno una società in cui chi ha in mano un libro non è marginale o sfigato, e lo legge per provare un piacere, che sia per lui anche strumento di partecipazione».
Da alcuni anni Rizzoli fa parte del gruppo Mondadori, una concentrazione di sigle editoriali che copre una grande fetta di mercato. Rizzoli vive una crisi d’identità?
«Può essere un’osservazione legittima, ma non la condivido. Semmai registro un’editoria che in generale, anche a livello mondiale, si trova a lavorare in tempi difficili, in un’epoca in cui il libro non è più un oggetto del desiderio, o forse non lo è mai stato. Questo implica vari tentativi, strategie diverse, che sono comunque un segnale di vivacità. Io poi sono una fedelissima di Rizzoli, sono affascinata e ammirata dalla storia di questa casa editrice, che è ampia, ricca. Sono nata con Rizzoli, con cui ho pubblicato i miei primi tre libri e con cui pubblicherò il quarto, che sto scrivendo. E poi sono legata alle persone, ai volti con cui lavoro, a cominciare dal mio editor Michele Rossi, sarebbe impensabile per me un’altra soluzione».
Cosa può dire del libro che sta scrivendo?
«Poco, sono molto scaramantica, finché un libro non finisce non so davvero quale direzione possa prendere. Magari butto cinquanta pagine e aggiungo sei capitoli. Di sicuro mi prenderò del tempo, come per i precedenti lavori (Da dove la vita è perfetta è del 2017, ndr), sono anni che mi servono, perché ognuno ha le sue ossessioni, ci sono temi più cari di altri da approfondire, uno sguardo che si deve modificare, a volte ho la tentazione di scrivere un po’ più velocemente, poi passa. Di sicuro, per me, la scrittura si nutre dell’esperienza che facciamo, della vita. Sono cresciuta come persona e le esperienze si depositano sul linguaggio, su come vedo e tratto i personaggi. Amo anche il fatto di invecchiare…».
In che acque naviga, oggi, la letteratura italiana?
«Penso che lo stato di salute sia ottimo e non solo per il caso mondiale, di cui sono orgogliosissima, di Elena Ferrante.Quando una donna scrive qualcosa che diventa un bestseller vedo sempre umori di pancia che vanno a inquinare qualsiasi opinione e giudizio. L’amica geniale può piacere o no, ha sì indubbie capacità di intrattenimento, ma è un grandissimo, speciale affresco del nostro Paese. Dimenticando sicuramente qualcuno, negli ultimi tempi sono stati pubblicati libri di valore, penso a Le assaggiatrici di Rosella Postorino, o a L’animale che mi porto dentro di Francesco Piccolo, un testo molto coraggioso. E poi l’Italia ha dei grandissimi, Ammaniti, Veronesi, Maraini, uno scrittore come Paolo Giordano, con una poetica e un’identità ben definita. Il suo La solitudine dei numeri primi è stato importante per la stesura del mio esordio, Acciaio». (Questa intervista è stata pubblicata in forma ridotta sul Giornale di Sicilia)
Ottima intervista ! Sono molto orgogliosa di questa autrice che da un senso e un significato al romanzo , cosa che molti oggi hanno dimenticato !!