Un uomo che perde i genitori, non salva il proprio matrimonio dal disfacimento, si fa sopraffare dall’alcol. E caterve di ricordi legati all’infanzia, con la Spagna sullo sfondo, un affresco storico. Un soliloquio autobiografico, più che autofiction, ecco cosa è “In tutto c’è stata bellezza” di Manuel Vilas
A nudo. Da figlio che resta tale, anche dopo la morte dei genitori, anzi soprattutto quando è sopraggiunta la loro scomparsa. Da marito che non è riuscito a salvare il proprio matrimonio dal fallimento. Da padre di giovani figli, con tutto quello che ne consegue. E poi insegnante di materie tecniche, alcolista, abbastanza misantropo. È tutto questo il narratore del romanzo In tutto c’è stata bellezza (416 pagine, 19 euro), pubblicato in Italia da Guanda, grazie alla traduzione di Bruno Arpaia. L’autore, lo spagnolo Manuel Vilas, si è definitivamente preso la scena in patria, con un libro che sembra autobiografia pura e nostalgica, più che autofiction. A parte il vezzo di chiamare i familiari con nomi di grandi musicisti (il padre Bach, la madre Wagner, i figli Vivaldi e Brahms, un amato zio Monteverdi), il romanzesco sembra essere poco. Tutto nasce da una cittadina aragonese mitica e rimpianta, Barbastro, dal padre, commerciante dal’inappuntabile eleganza e dalla vita piena, ma tutt’altro che espansivo nel rapporto con il figlio, dalla madre, bellissima e dalle unghia perennemente smaltate, fumatrice, terrorizzata dai temporali. E la storia va avanti dagli anni Settanta ai giorni nostri, quando il protagonista è ultracinquantenne.
Personalissimo, eppure universale
Il libro è intriso di viaggi e riflessioni, prova a gettare uno sguardo sull’infanzia e a far rivivere padre e madre dell’autore, anche attraverso i loro oggetti, considerati alla stregua di reliquie. È molto spagnolo, ragiona sulla società iberica, sulle conseguenze e sulla conclusione della guerra civile, sul franchisimo e sulla sua fine, ma irrompono più che altro (intrecciati a parecchi episodi dell’infanzia e della gioventù) pensieri e ragionamenti coraggiosi su amore e vita, sesso e morte, sulle relazioni familiari, sulla paternità («Quando sei padre, come lo sono io, lo sei di tutti i figli del mondo, non soltanto dei tuoi»), sul deterioramento del corpo e sulla vecchiaia (che Wagner non amava), sulla dignità e sui limiti umani. Personalissimo, accartocciato su se stesso, senza filtri (anche quando racconta dell’abuso subito da un prete), Vilas, eppure riesce a essere universale.
Il dolore come misura del mondo
Un soliloquio che contempla il passato, i fantasmi della vita, un uomo alle prese con l’introspezione, ma senza retorica, che fa domande e non sembra avere risposte. In tutto c’è stata bellezza di Vilas ha un evidente chiave interpretativa del mondo: come quasi tutti i libri ha nulla o poco da insegnare, ma per la comprensione della vita ha un approccio tranchant. La misura del mondo è il dolore, l’affetto trattenuto, addirittura il silenzio dei sentimenti, quello che ha ricevuto da padre e madre. «Magari – si legge – si potesse misurare il dolore umano con numeri chiari e non con parole incerte. Magari ci fosse un modo di sapere quanto abbiamo sofferto. E il dolore avesse materia e misura».
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