Intervista alla poetessa che lavora ad alcuni inediti e ci cui a breve sarà ripubblicato “Poesie per un gatto”. “Ho scritto un intero libro per un gatto, ma amo di più i cani. Ci sono poeti e maestri che sento vicini, ma adesso cerco anche i meno affini, quelli che possiedono quello che a me manca”.
Bisogna provarci a parlare di poesia. Anche se quando cerchi di farlo uno stranissimo meccanismo fisiologico ti toglie le parole di bocca, rendendoti afono. È vero, se davanti agli occhi hai, per esempio, un libro di Vivian Lamarque come Madre d’inverno o Poesie per un gatto (che in questi giorni Mondadori ripubblica) vieni rapito da un intimo e indescrivibile accordo di voci, una consonanza che risuona fra te e i versi che stai leggendo. Non te ne chiedi le ragioni. E se proprio dovessi trovare una risposta, lo faresti con quell’adagio di Angelo Silesio: «La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce…».
Ed è per questo motivo che, di tanto in tanto, a soccorrerti arrivano le voci dei poeti, fuori dai loro testi. Come stavolta, proprio in compagnia di Vivian Lamarque. Per parlare della sua poesia, e dello scrivere e del riscrivere, e di gatti e di cani, e di tanto altro.
Lamarque, mi piacerebbe iniziare questa nostra conversazione con le parole che usò Giovanni Raboni per parlare della sua poesia: «La Lamarque ha questa grazia, questa ingenuità di scrivere poesie come se si trattasse di compiere un gesto che non ha nulla a che fare con la letteratura»…
«Giovanni Raboni, la cui poesia, riletta oggi dopo anni e decenni, si fa sempre più grande, ebbe anche il merito di leggere ascoltare seguire con pazienza i versi che andavamo componendo noi, allora giovani scribacchini. Niente gli sfuggiva. Nel caso mio aveva centrato il punto: dall’età di dieci anni scrivevo infatti poesie proprio “come si trattasse di compiere un gesto ecc. ecc…”. Esattamente così avveniva».
È di quel gesto di cui parla Raboni che vorrei chiederle: scrivendo poesie, lei ha voluto sostituire l’astratta percezione di ciò che è letterario con l’evidenza della poesia come bene reale, come qualcosa di cui si percepiscano carne e ossa? Oppure ha voluto immettere quell’astratta percezione di ciò che è letterario all’interno di una poesia legata al quotidiano?
«Non intendevo né questo né quello, non intendevo niente di niente. Scrivevo, a vent’anni come a dieci, solo per me e per tutti quei nomi e cognomi in continua crescita e metamorfosi sulle pagelle (Vivian, Daisy, Donata, Provera, Pellegrinelli e un bel giorno spuntò sulla targa della porta pure un Comba). Confusa, spaesata, scrivevo per cercare di capire qualcosa di tutto quell’andare e venire di nomi diversi; una volta a un appello in colonia, a Livorno, con un nuovo cognome non risposi perché non lo riconobbi. Mi tennero un giorno e una notte in caserma per capirci qualcosa (“non sapevaMo chi ero”). Poesia (subito) e analisi junghiana col Dott. B.M. (trent’anni dopo) mi ricostruiranno pezzetto per pezzetto. Raboni poi scrisse anche altro della mia poesia, ne sono orgogliosa, e dopo il Viareggio Opera Prima nel 1981 (ma avevo già 35 anni) cominciai finalmente a essere meno inconsapevole».
«In una libreria di Colonia/ per nostalgia del tuo tepore/ su uno sgabello ho accarezzato/ un gatto tedesco arrotolato…»: questa poesia in Madre d’inverno l’ha dedicata al suo gatto Ignazio. I gatti sono figure sempre tanto presenti fra i suoi versi che mi incuriosirebbe molto sapere che valore ha, che dimensione assume la gattità nella sua poesia.
«Per Ignazio ho scritto un libro intero! È un Oscar Mondadori intitolato Poesie per un gatto (che si apre citando Wisława Szymborska). Committenza sua, di Ignazio, con proibizione di refusi (invece ce ne furono). Un intero libro per un gatto, eppure preferisco i cani. Preferisco i cani ma al mio cane Brigante dedicai solo questi versi: “Dei cani brutti / sei il più bello di tutti”. (Ha gradito il secondo verso ma non il primo). In libreria si possono trovare scaffali interi per Sua Gattità, e pochi per il cosiddetto amico dell’uomo. Perché? Me lo domando. Forse perché in amor vince chi fugge, i gatti si fanno inseguire, i cani ci inseguono, ci adorano, lavorano per noi, per noi danno persino la vita. Le poesie si scrivono più per amori sfuggenti, difficili, immaginati che per amori dichiarati, reali».
Lei e i suoi maestri. Abbiamo parlato prima di Raboni; in Madre d’inverno si può leggere del suo profondo legame con la poesia della Szymborska («Preferisco Szymborska, preferisco Wisława/ che in polacco si dice Visuava»): come vivono nei suoi versi questi maestri?
«Sì, Szymborska la sento affine e quando morì scrissi alcuni versi che, per l’occasione, uscirono su La Lettura. Ma più profondamente vicina sento Emily Dickinson. E i lirici greci e Saba, Penna, Caproni ecc. Ma ora, a 73 anni, cerco con passione anche gli altri, i dissimili, i meno affini, sono loro a possedere quello che a me manca».
Fra i ringraziamenti finali di Madre d’inverno annovera «la pazienza dei Lettori che in questi anni mi hanno aspettata»: un’attesa che qualcuno calcola di vent’anni, altri di quattordici, tempi che sembrano impossibili oggi per il mondo dell’editoria. Per il tempo che la poesia richiede non si corre il rischio che il pubblico vada dimenticandosi dei poeti?
«Ha ragione. Vizio cronico: scrivere, accumulare disordinatamente, rimandare sempre la selezione, la fase finale. Questa volta però ho esagerato col numero di anni e solo quando me l’hanno fatto notare me ne sono resa conto. Forse due i motivi: dal 2000 in poi una duplice forte richiesta di cure familiari (per il lento tramontare di mia madre e per l’alba – con quello che comporta – dei miei due nipoti Micol e Davide). E seconda e altrettanto forte motivazione: i precedenti libri sottintendevano una clandestina speranza, che gli amati – galeotte le poesie d’amore – si innamorassero subito di me! Questa volta invece… non c’era nessuna poesia d’amore, nessuna fretta. Ora però sto scrivendo L’AMORE DA VECCHIA!»
Mi permetta un’ultima indiscrezione: è vero che ha già modificato molti testi di Madre d’inverno e se ne aspetta, quindi, una nuova edizione?
«È vero. Durante le letture pubbliche all’uscita del libro ho corretto molto. Per esempio alla poesia Cambiare il mondo ho aggiunto cinque “forse”. Uno solo non mi bastava più. Anche se in fondo sono dei forse rafforzativi (mia invenzione). Forse forse forse ecc. la poesia lo cambierà un poco il mondo “ma tra tanto tanto di quel tempo / …. / come un nevicare lento lento lento”, omaggio finale al Pascoli di Orfano (“lenta la neve fiocca fiocca fiocca”). E ho corretto anche molti altri versi. Mondadori ne avrebbe fatta una nuova edizione ma nel frattempo era cambiata la grafica delle copertine dello Specchio, la nuova copertina sarebbe stata diversa. Un altro doppio no per carità, tutta la mia vita ne è stata inseguita! Se ci saranno ulteriori ristampe, forse mi limiterò a chiedere un foglietto di errata corrige».