Intervista a Marco Missiroli, autore di “Fedeltà”, super favorito del prossimo premio Strega: “Volevo fotografare la silenziosa guerra sentimentale che vivono i quarantenni. Polemiche e critiche fanno parte del gioco, mi interessa che il romanzo sia vitale nel territorio culturale. Una delle cose di cui sono più orgoglioso è la tecnica che ho usato, il passaggio di anime…”
Il romanzo del momento sta dividendo critica e pubblico in tifoserie da stadio. Si alternano lodi e paragoni vertiginosi e acide stroncature, sia su carta che sul web. Fedeltà (232 pagine, 19 euro), sesto romanzo in quattordici anni del riminese Marco Missiroli, trentottenne, è stato candidato allo Strega da Sandro Veronesi, che ha vinto nel 2006 lo stesso premio. Un segnale, dopo tante voci: il romanzo del momento potrebbe diventare quello dell’anno, aggiudicandosi lo Strega per cui è indicato come il super favorito da molto tempo, quando ancora Missiroli non lo aveva consegnato alla Einaudi. Lo scrittore riminese è avvezzo ai premi letterari, anche se si parla del più noto in Italia, ma al momento è concentrato su altro.
Missiroli, il suo romanzo fa accorrere lettori in libreria, spacca la critica e come i grandi favoriti scatena polemiche, invidie, antipatie. Come ci convive?
«Parto sempre dal presupposto che se un libro divide è vivo, è andato a toccare una sostanza molto vitale. Ne sono felice e orgoglioso. Poi un libro si scrive a priori, qualsiasi orizzonte possa avere, senza pensare ai premi. Sono contento di partecipare allo Strega. La voce d’essere favorito è nata molto tempo fa, è una congettura di altri. Sono indiscrezioni che rendono antipatico chi è favorito, magari un po’ lo indeboliscono. Vedremo se riuscirò a fare un buon percorso. Quello che mi importa è che il libro sia vitale nel territorio culturale».
Una risposta più politicamente scorretta? Dopo quattro anni di lavoro, a un autore fanno più piacere paragoni impegnativi con Buzzati e Joyce, o dà più fastidio leggere che ha copiato male Roth o a fatto ricorso a baricchismi…
«Davvero, se Fedeltà scatena un dibattito, significa che è reattivo, forte, vitale, soprattutto nelle controversie. Sono felice, non so come dirlo altrimenti. Quando un autore legge una critica negativa è ovvio che sul momento patisce un po’, però fa tutto parte del gioco. Se si scrivesse solamente sperando di passare inosservato o che vada tutto liscio, allora farei un altro mestiere».
In Fedeltà Carlo e Margherita, marito e moglie, tra imbarazzi e desideri, ragionano su fedeltà e tradimento. Ma dietro al titolo ci sono varie accezioni…
«Il titolo è nato insieme alla concezione del romanzo, si riferisce alla struttura sentimentale del romanzo. È nato al singolare, mentre scrivevo è diventato plurale, esistevano dentro i miei personaggi tante forme di fedeltà, non solo quella matrimoniale. Ha altre accezioni, fedeltà sociale, morale, spirituale, economica. Mi è venuto naturale e non ho avuto nessun timore a metterlo sulla pagina».
Molti quarantenni possono rispecchiarsi nei due protagonisti, che fanno fatica a vedersi adulti e non sentirsi più figli. Anche questo voleva catturare in Fedeltà?
«Soprattutto questo. Fotografare una generazione che non è ben salda e non è ben saldata alle generazioni successive, sembriamo sempre ostaggio di quella passata. Siamo figli eterni, quando tentiamo di essere genitori lo siamo in una maniera un po’ dolorosa, soffriamo un tessuto economico che non ci dà sicurezza e quasi ci espone alle infedeltà rispetto a norme sociali passate, in cui quelli che ci hanno preceduto erano quasi forzati, loro malgrado, ma saldi, tranquilli, in determinati contesti familiari. Adesso siamo un po’ scollati, in una silenziosa guerra sentimentale, le separazioni, le disgregazioni, questa era la parte, che volevo fotografare, della vera infedeltà sentimentale che ci appartiene».
Per Margherita l’infedeltà può significare fedeltà verso se stessa. Lo crede anche lei?
«Mi ritrovo moltissimo nella domanda che Margherita si fa, cioè “Se sono fedele a me stessa quanto non sono fedele agli altri, quanto posso ferirli?”. È un dubbio intestino, fondamentale, una lotta, che porta avanti il personaggio, me stesso, la stesura del romanzo, quella sottile tensione per cui capiamo che spesso dare ascolto a quello che abbiamo dentro significa tradire gli altri, il contesto in cui viviamo. Quanto vogliamo essere fedeli a noi e agli altri? Questa è la domanda su cui si basa tutto, è un interrogativo che spero dia vita ad altri interrogativi».
Come nel suo precedente romanzo, Atti osceni in luogo privato, l’attenzione e il desiderio di indagare i sentimenti dei corpi si ripropongono. È una scelta calibrata? Naturale?
«Il corpo è il baricentro di questo mio romanzo come del precedente per il semplice fatto che esercita magnetismo, è una specie di magnete per i protagonisti, li muove, li tenta, li fa ritrarre, li fa arrendere, li fa riprovare nella vita, è un po’ un viatico. Per Libero Marsell (protagonista di Atti osceni in luogo privato, ndr) era il viatico della scoperta, per Carlo e Margherita è quello della riscoperta di se stessi e anche di una giovinezza che se ne va, di un’adultità che deve arrivare. È sempre un processo di formazione, forse, in entrambi i casi».
Aveva confessato imbarazzo, quasi vergogna dopo la pubblicazione di Atti osceni in luogo privato, spiegando che quello era il sentore di uno scrittore, se stesso, che si stava facendo le ossa. Con Fedeltà ha superato questa forma di imbarazzo?
«Non era imbarazzo, non era vergogna, era consapevolezza che si trattava di un’opera viva, ma ancora non ferma dal punto di vista della maturità. Con Fedeltà sento di averla fermata, questa maturità, di essere riuscito a trovare una cifra che mi corrisponde come livello di maturità da scrittore, come lingua, come struttura. Sento di aver scritto un’opera che è anche un luogo che mi rappresenta in un punto chiamiamolo di maturazione di quel che dovevo fare. La mia formazione di scrittore è confluita bene in questo romanzo, secondo me».
A proposito di (in)fedeltà, dopo Fanucci, Guanda e Feltrinelli ha scelto Einaudi come nuova casa editrice. Perché?
«Volevo lavorare con Angela Rastelli e, dopo averlo fatto, ne sono molto contento».
Come in alcuni successi degli ultimi anni della narrativa italiana Einaudi, da Cognetti a Balzano, per certi versi si notano tratti comuni, come provenienti dalla stessa officina letteraria. E non è necessariamente una critica o un segnale di omologazione…
«È una domanda che non ha humus sincero, vero. Io non mi faccio toccare da nessuno i libri, solo nella maniera più maieutica possibile e mai coattiva, costringente. Con Angela Rastelli e Paola Gallo (due editor della narrativa italiana di Einaudi, ndr) abbiamo lavorato sui punti interrogativi, maieuticamente. Loro mi chiedevano se fossi sicuro se quella pagina mi andava bene così, mi dicevano di trovare da me la soluzione, ed è stato bellissimo lavorare in questa maniera. In riferimento ai libri citati, rispetto a loro, sul mio c’è stata una reazione più muscolare, più divisoria, questo credo già faccia capire la differenza. Sulla lingua sono sempre stato preciso, ci ho lavorato quattro anni, non c’è stato nessun tipo d’intervento da questo punto di vista. Sono integerrimo, perché andrebbe a ledere una parte integrante del mio codice strutturale narrativo».
Molto singolare, originale, la cosiddetta tecnica del passaggio di anime, come l’ha già definito, nello stacco delle scene. Quanta fatica le è costata?
«È un’idea che è venuta naturale, quella di dissolvere i personaggi l’uno nell’altro, e sono molto contento perché è una tecnica che non avevo mai trovato in un contesto italiano di narrativa. Ma non è qualcosa di tecnica cinematografico, è una tecnica interiore, l’interiorità di un personaggio arriva nell’altro come se fosse una matrioska, come se tutte le relazioni che noi abbiamo le contenessimo in qualche modo e le riportassimo a noi stessi e poi le scaricassimo sugli altri in maniera positiva. Una sorta di flusso energetico sentimentale. È stato bello come la struttura del libro accompagnasse questa idea in modo così naturale. È una delle cose di cui sono più orgoglioso di questo romanzo». (Questo articolo è stato pubblicato in forma diversa e ridotta sul Giornale di Sicilia)