Chiara Marchelli, autrice de “La memoria della cenere”: “Ci sono situazioni in cui la menzogna serve a proteggersi. Spesso si dice la verità per alleggerirsi e credo sia un atto di violenza inutile. Amo osservare e mi faccio sorprendere dalle cose più semplici. L’essere al mondo mi spinge a scrivere”
La protagonista del nuovo romanzo dell’aostana Chiara Marchelli, La memoria della cenere (296 pagine, 18 euro), pubblicato da NN, è una scrittrice, Elena, colpita da un aneurisma a New York. Sopravvive e, con Patrick, si trasferisce in Francia, vicino al vulcano Puy de Lúg.
Marchelli, Auvergne, dove è ambientato il suo romanzo è una terra di vulcani. E il vulcano che si trova vicino al paesino in cui risiedono, nella sua eruzione espelle gli strati che si sono depositati al suo interno e che rappresentano il passato. Allo stesso modo l’animo interiore di Elena si smuove di fronte ai conti di un passato che viene a galla e che forse non le appartiene ma che di certo la annienta. Per te la menzogna è una forma di tradimento?
«Non necessariamente, non sono una persona che trova valore o meno in cose come la menzogna. Condanno in assoluto la violenza, la menzogna mi pare uno strumento neutro a volte anche di difesa dei rapporti e delle persone, quello che chiamiamo “bugie bianche”. Non penso a me come una persona che dice bugie, tendo a essere il più onesta possibile sia nella scrittura come nella vita, ma ci sono situazioni in cui la menzogna serve a proteggere l’altro. Mi viene in mente una situazione di tradimento classico: quando uno dei due partner di una coppia tradisce e poi confessa all’altro, perché non si può tacere o non si può mentire. Penso che in moltissimi di questi casi si dice la verità per alleggerire la coscienza e credo che sia un atto di violenza inutile».
Il vulcano a un certo punto erompe e rompe gli schemi. Anche quelli famigliari. Hanno sottolineato in molti il sottofondo di inquietudine della protagonista che non riesce ancora a riappropriarsi del proprio corpo. Perché dopo un momento di rottura come è stato l’aneurisma, hai voluto ancora creare una frattura con l’eruzione del vulcano?
«Volevo un parallelo fra interno ed esterno. Io vivo molto in armonia con la natura, mi interessava accostare le due dimensioni: quella personale interiore della protagonista e quella esterna naturale, laddove la natura è così importante e preponderante, tanto che agisce direttamente sui destini di queste persone. All’inizio non è stato intenzionale. Ho pensato all’aneurisma perché mi interessava quella rottura e quel punto di partenza, partire da una ricostruzione, da una sopravvivenza, in un posto così come me lo sono immaginato, in cui c’era un vulcano. Piano piano la storia è andata costruendosi e i piani si sono allineati, sono andati avanti in armonia, poi, coscientemente è diventato essenziale alla storia, sono andati, fino in fondo, in un crescendo parallelo».
Quante delle sensazioni di cui scrive nel libro condivide con Elena, la protagonista?
«Quelle che appartengono alla mia esperienza sono spesso le mie, perché immagino alcuni sentimenti, alcune reazioni, alcune meccaniche sentimentali che sono simili a quelle che vivo io nel mio quotidiano. Nulla ha a che fare con me, ciò che riguarda la malattia, fortunatamente non ho vissuto un aneurisma, quindi non so come si sta in quello spazio in cui si è trovata la protagonista quando è stata ricoverata e dopo, nel periodo della convalescenza».
Senza dubbio lei è una fine osservatrice, le descrizioni dei personaggi sono meticolose analisi dell’animo umano, che cosa la sorprende dell’essere umano?
«Io mi faccio sorprendere abbastanza spesso dalle cose più semplici. L’altro giorno in metropolitana a Firenze e mi ha sorpresa il fatto che un ragazzo si sia alzato, non mi ha sorpresa che abbia lasciato il posto a un anziano, ma mi ha sorpresa lo scambio che c’è stato dopo, quando l’anziano è andato a ringraziare il ragazzo con un gran sorriso. Sono piccoli gesti o le grandissime sorprese che sconvolgono tutti quanti, ma mi succede spesso di essere rallegrata, sorpresa, colpita. È vero che amo osservare, è una condizione del mio carattere, io credo che ogni scrittore debba essere un eccezionale osservatore, ed è vero che osservando in questo modo è come se entrasse un motore alternativo, non solo quello dell’occhio ma anche dell’empatia, metti in gioco l’emozione e il coinvolgimento, è più facile reagire emotivamente, con la sorpresa, la rabbia o un’altra sensazione».
Ha detto che la sua massima ambizione “è quella di diventare la migliore scrittrice che avrei potuto essere”. Che cosa la spinge a scrivere?
«L’essere al mondo mi spinge a scrivere, scrivo da sempre, è il mio modo di processare gli eventi e di distillare quello che mi arriva dall’esterno, è la mia voce, il mio ponte verso gli altri. Tra chi scrive c’è chi distingue chi fa lo scrittore e chi è uno scrittore, io credo di appartenere alla seconda categoria. Non credo che potrei essere senza scrivere».
Vive da cittadina americana nell’era Trump. Qual è l’antidoto per una società e per i suoi cittadini alla chiusura e all’isolamento?
«L’istruzione, l’interesse verso l’altro, l’apertura, l’ascolto, in una parola: la democrazia».
Bell’articolo, complimenti a Lucia Libri e a Paola Zoppo.
Chiara Marchelli è la mia autrice preferita, certo, ma ho apprezzato molto le domande poste ed in particolar modo il riferimento a cosa ci sorprende ancora nelle persone.
Sto leggendo il romanzo e sarà un bel viaggio
Un caro saluto
Carlo