“Finché morte non sopraggiunga” dello scrittore israeliano appena scomparso raccoglie due romanzi brevi, pubblicati nei primi anni Settanta. Due storie lontane nel tempo accomunate da una profonda meditazione sull’esistenza, sulla solitudine e sull’odio antisemita. Opere per certi versi acerbe, ma dotate della forza morale che ha accompagnato Oz per tutta la vita
Il titolo dell’ultimo libro di Amos Oz giunto nelle librerie italiane da qualche tempo può sembrare beffardo, dopo la sua scomparsa. Finché morte non sopraggiunga (142 pagine, 15 euro), pubblicato da Feltrinelli e tradotto da Elena Loewenthal, è composto da due romanzi brevi, scritti circa mezzo secolo fa, da un uomo e da un autore che hanno certamente avuto un’evoluzione, come tutti, ma che non ha mai smesso di interrogarsi sulla solitudine e sul tempo, cioé sull’uomo.
Tempo, morte e vita
Lo scrittore che ci ha da poco detto addio iniziava questo libro (uno dei suoi primi, dedicato al padre, il cui cognome, Klausner, aveva dismesso, per abbracciare Oz), scrivendo: «Ho ancora due o tre cosette da dire. Il tempo passa». La voce è quella di un anziano insegnante e conferenziere, Shraga Unger, che vive in una Tel Aviv di altri tempi (quella immediatamente successiva alla Guerra dei Sei Giorni), giunto vicino al declino inesorabile e al destino inevitabile della morte: è in pensione e, dopo una vita dedicata a denunciare la persecuzione bolscevica ai danni degli ebrei, la svolta antisemita di una rivoluzione a cui pure, inizialmente, ha medita malinconicamente sulla vita e su Israele. Qualcosa di abbastanza classico nell’opera di Oz, che però si sposa e si innesta con una seconda storia assolutamente sorprendente, un breve romanzo storico e in parte surreale, ambientato nel cuore di un’Europa crudele, alla fine dell’undicesimo secolo: protagonisti alcuni improvvisati aspiranti crociati che partono dalla Francia alla volta della Terra Santa.
Bolscevichi antisemiti e crociati a caccia di giudei
Cosa accomuna Amore tardivo e l’altro romanzo breve (che dà il titolo all’intero libro), due testi così apparentemente distanti per tono, temi e tempi? Malinconia e solitudine, l’intreccio di morte e paura, lo spettro concretissimo dell’antisemitismo, l’odio millenario che si è riversato nel tempo sugli ebrei. Shraga, alle prese con un evidente decadimento del corpo, gira per kibbutz e nelle sue conferenze arringa la sua verità: che i bolscevichi abbiano come obiettivo primario lo sterminio degli ebrei; e vagheggia una Gerusalemme celeste come luogo di serenità definitiva. Parallelamente, parecchi secoli prima, ad Avignone, il conte Guillaume de Touron, vedovo e pieno di debiti, e lo stalliere, Claude Spallastorta, organizzano una spedizione con destinazione Gerusalemme, accogliendo l’appello del papa per una crociata: un viaggio in cui massacrano e torturano ebrei, che aumentano quanto più la meta si fa vicina, un viaggio segnato da presagi e presentimenti, uno su tutti, che nel gruppo ci sia un infiltrato, o uno spirito maligno, in ogni caso un giudeo, il nemico per eccellenza.
La stessa tensione morale di sempre
Sono pagine forse acerbe, forse di una purezza non compiuta e imperfetta – ma è un’opinione che può far acqua, perché pochi anni prima Oz aveva già pubblicato uno dei ruoi romanzi più importanti e amati, Michael Mio – ma comunque lucide, sorrette da una tensione morale identica a quella che all’inizio del terzo millennio lo scrittore israeliano, uno dei patriarchi mondiali delle lettere. Uno che ci mancherà per sempre e che non ci mancherà mai, finché i suoi libri saranno nelle case, nelle librerie e nelle biblioteche.
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