Una strenna che non sbrillucica, ma si nutre di oscurità su un tram, nella «periferia della periferia dove Dio si rifiutava di guardare». Protagonisti uomini e donne ai margini e un nenonato abbandonato su un sedile. Un Natale, quello evocato dallo scrittore palermitano Calaciura ne “Il tram di Natale”, tra chi è solo, malato, straniero, un Natale con un filo di speranza…
Il bambinello? Un trovatello abbandonato da una mamma disperata, quasi certamente straniera. La mangiatoia? Un mezzo del trasporto pubblico, il tram numero 14, «una stella cometa» che nel rapido epilogo prosegue la sua corsa fantasticamente. Betlemme? Una metropoli, con tanti comprimari, disperati, chini sul proprio destino, accartocciati in pensieri e situazioni difficili.
Dove Dio non si addentra
A poco più di un anno e mezzo dalla pubblicazione di «Borgo Vecchio», Giosué Calaciura torna in libreria con Il tram di Natale (107 pagine, 10 euro), edito da Sellerio. In qualche modo lo scrittore palermitano regala una specie di instant book natalizio, una strenna che però non sbrilluccica, non sprigiona allegria, non fa ricorso all’immaginario commerciale delle festività di fine anno, tutt’altro; è un racconto che si nutre piuttosto di oscurità, ambientato com’è in un tram che si muove nella «periferia della periferia, dove Dio si rifiutava di guardare, dove neanche per sbaglio si era mai addentrato».
Una vigilia da groppo in gola
Sul tram, nella sera che precede il Natale, si trovano uomini e donne ai margini, dal punto di vista sociale, ma soprattutto umano: dal venditore di ombrelli a Filippo, il cameriere filippino che ha da poco finito di servire al cenone natalizio, da una coppia improbabile – quella formata da una prostituta nera e dal suo accompagnatore dall’aspetto giovanile, gonfio di liquidi, dai capelli tinti, vedovo che non sa «rinunciare alla finzione dell’amore» – a William, giovane migrante, orfano di una guerra civile. Per tutti è una vigilia da groppo in gola, un momento di passaggio, e quel bimbetto lasciato sul sedile, novello Gesù, «era un fremito di vitalità che inchiodava ciascuno al proprio smarrimento».
Un crescendo orchestrato con grazia
Smarrimento che aumenta quando sul tram salgono due Volontari della Patria, fascistelli violenti con uno scarabeo (con panzane tipo questa che spiegano la simbologia: «… gli antichi egizi lo mettevano sulle mummie per fare rinascere i morti. Noi faremo rinascere la purezza della stirpe contro ogni tentativo di annacquare il nostro sangue imperiale») sulla spilla. Tutti i passeggeri del tram faranno in qualche modo i conti con quella vita appena nata, in un crescendo orchestrato senza strappi, ma con una certa grazia.
La marginalità dei deboli e indigenti
Questa strana, laica e indifesa Natività (di cui fanno parte anche un malandato ex mago alle prese con l’Alzheimer e un’infermiera che s’interroga sull’ingiustizia della vita e della morte) messa in scena da Calaciura fa cadere i veli su certi mali ineludibili della nostra contemporaneità; ancora una volta lo scrittore palermitano – coerentemente con la sua poetica e con molti dei lavori precedenti – punta i riflettori sulla marginalità dei più deboli, sulla lotta per la sopravvivenza degli indigenti, di chi è solo, straniero o malato, ma ancor più sui deserti di certe anime, di chi apparentemente non fa i conti con nessun guaio, con problemi di natura economica o sociale. E, a suo modo, regala un filo di speranza, col dispiegarsi finale di una sorta di piccolo miracolo… (Questo articolo è stato precedentemente pubblicato sul Giornale di Sicilia)
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