“Donne che parlano” è l’ultimo romanzo della scrittrice canadese nota per “I miei piccoli dispiaceri” e “Un complicato atto d’amore”. Anestetizzate e vittime di violenze inaudite, le componenti di una remota comunità mennonita si confrontano alla ricerca di una salvezza. Pochi hanno lo sguardo di Toews sul dolore e su ciò che di oscuro c’è nella vita
Pochi scrittori, oggi, hanno lo sguardo sul dolore e sulle zone oscure della vita che ha Miriam Toews. Autrice che, in Italia, aveva lanciato Adelphi, ma – incredibile a dirsi – non aveva fatto la differenza con la casa editrice di Calasso. L’ha rigenerata, curata, riscoperta, come si deve, Marcos y Marcos. Poi la bellezza dei suoi libri ha fatto il resto. Tra gli imprescindibili restano Un complicato atto d’amore e I miei piccoli dispiaceri. Il più recente Donne che parlano (255 pagine, 18 euro), però, ha la capacità di attrarre vecchi lettori e di conquistarne di nuovi.
Un fatto di cronaca rielaborato
Uno spunto di cronaca è all’origine di questo romanzo (tradotto in modo molto puntuale da Maurizia Balmelli, con una bella copertina firmata da Laura Fanelli), che fa i conti, ancora una volta, con dogmi religiosi e regole antidiluviane, le cui vittime sono più che altro donne. In realtà si va oltre i dogmi e le regole, subentra la violenza, quella più subdola, psicologica, fisica, sessuale. Una decina d’anni fa, in una comunità mennonita (stessa confessione religiosa d’origine della Toews) della Bolivia alcuni componenti furono condannati, perché anestetizzavano pesantemente (con prodotti destinati agli animali), prima di violentarle, le donne; che si svegliavano doloranti, spossate, ferite, nel corpo e nell’anima. Toews, dopo lunga gestazione, ha rielaborato letterariamente la vicenda. Immaginando alcune donne mennonite (Greta, Mejal, Mariche, Neitje, Autje, Ona, Salomé e Agata) di una comunità che hanno vissuto la stessa tragedia. Una fotografia “sconvolgente”, che va al di là dell’atto di accusa contro una religione, ma che abbraccia le società patriarcali, e le loro storture, in toto.
Una doppia salvezza?
Dopo l’arresto degli aguzzini che hanno approfittato di loro, dopo averle drogate con uno spray di Belladonna – e che potrebbero tornare liberi, saldando una cauzione – le donne della comunità si riuniscono in una stalla, pronte per la prima volta a ragionare sul da farsi. Si tratta già di una rivoluzione, perché sono donne analfabete e sottomesse, abituate solo ad occuparsi di mariti e figli, che non pensano a orpelli di nessun tipo (come senza orpelli e prima di effetti speciali è la voce della Toews, che è autentica, e fa riflettere e commuovere, scrivendo di tormenti, dolori e contraddizioni), a cominciare da quelli estetici. Un unico uomo è coinvolto, testimone che possa raccontare, August Epp; lui è un altro modello di uomo, diverso dagli altri, l’insegnante della comunità, suo padre e sua madre erano stati allontanati (erano di vedute troppo ampie), esiliati in Inghilterra, da dove lui ha fatto ritorno. La storiaccia con cui fanno i conti può essere una salvezza per loro, ma in un certo senso anche per lui, che è innamorato di Ona.
Una giravolta mentale
I lividi e i dolori non sono frutto dell’azione di demoni o addirittura di punizioni divine, come sostenevano i colpevoli (fratelli e zii, nipoti e cugini), che non si erano fermati nemmeno davanti ai corpi delle bimbe più piccole della comunità. A quanto possono e vogliono rinunciare? È questa la domanda che rimbomba fra le mura della stalla, le donne devono capire e decidere cosa fare: se dimenticare e adeguarsi alla vita di sempre, per sempre, se restare ma con un altro spirito, combattendo, o se sparire dalla circolazione, provare a rifarsi una vita altrove. Opzioni universali, con cui ogni donna violata, maltrattata, succube fa i conti quotidianamente. Già parlare, confrontarsi per capire, è una giravolta mentale per la comunità femminile del villaggio. Che indagano le loro anime e interrogano Dio (perché ha permesso tutto questo, se è onnipotente?).
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