I due libri pubblicati, il terzo in arrivo, lo sguardo antiretorico e le influenze, delle più disparate, fra libri, film e videogiochi. Intervista al palermitano Isidoro Meli, autore de “La mafia mi rende nervoso” e “Attìa e la guerra dei gobbi”: «L’irritazione per certa retorica mi ha spinto a scrivere. La storia a cui lavoro? Ambientata a Mazara del Vallo, tra atmosfere gotiche e sudamericane, alla Piglia e Saer»
Partecipando a un volume collettivo, Polifonia trapanese per Margana edizioni, è tornato in libreria, ma ha in ballo almeno tre nuovi progetti, uno dei quali in fase avanzata, cioè il successore dei suoi primi due romanzi, La mafia mi rende nervoso e Attìa e la guerra dei gobbi, editi entrambi da Frassinelli. Una storia nera, scritta di notte, ambientata in Sicilia, of course, e che in qualche modo ha come nume tutelare il grande scrittore messicano Juan Rulfo (quindi di una certa ambizione, ed è l’ambizione, più che l’ottimismo, il sale della vita…), i cui pochi titoli sono pubblicati in Italia da Einaudi. Il palermitano Isidoro Meli nel 2016 aveva pubblicato un libro in cui si parlava di mafia come mai era stato fatto prima, La mafia mi rende nervoso è una grottesca commedia degli equivoci, con protagonista un portapizzini di Cosa nostra, che si finge muto e stupido… Quest’anno è stata la volta di un’opera seconda godibilissima, fresca, originale, con pochissimi parametri di riferimento nella letteratura contemporanea, specie italiana, dove qualcosa di simile non esiste. Attìa e la guerra dei gobbi. Imprese et mirabilie di un eroe siciliano in difesa della sua terra invasa dai barbari è un avventuroso ed esilarante romanzo risorgimentale (ne abbiamo scritto qui), rivisitazione di antichi modelli picareschi, una fantasia scatenata, un’epopea scanzonata, una giostra del piacere per chi legge. Protagonisti quattro sgangherati personaggi che, nel 1860 da Palermo, salpano su una bagnarola alla volta dell’isola di Caprera. Il loro obiettivo? Costringere Garibaldi a rinunciare all’impresa dei Mille, il rapimento della sua Anita dovrebbe farlo desistere…
Meli, come è nato Attìa e la guerra dei gobbi?
«La genesi è stata abbastanza faticosa. Non è semplice neanche darne un’idea esatta, nel senso che l’ho scritto nel corso degli anni, iniziando anche prima di mettere mano a La mafia mi rende nervoso, che poi è stato il mio esordio. Semplicemente a un certo punto mi ero fermato, mi sembrava troppo complicato andare avanti, in quel momento non ne ero capace. Ci ho rimesso mano dopo quello che è diventato La mafia mi rende nervoso. Finita la prima stesura, ho riletto, rimaneggiato, riscritto nel corso del tempo fino a un’ultima revisione effettiva del 2015»
Racconta l’epoca risorgimentale con lo sguardo a cui si era accostato alla mafia…
«Il fastidio per luoghi comuni e retorica sul Risorgimento mi ha spinto a raccontare questa storia. Da una parte c’é la storiografia ufficiale intrisa di patriottismo, dall’altra quella filoborbonica, agghiacciante e poco credibile per contenuti, pomposa per lo stile. Entrambe le versioni sono prive di chiaroscuri e intrise di ipocrisia. Noi siciliani ne siamo molti esperti, in particolare noi palermitani siamo sensibili, tanto che l’irritazione per certa retorica mi ha spinto a scrivere. Completare il primo romanzo mi è sembrato quasi indispensabile, per sopravvivere in un ambiente pervaso da un certo tipo di mentalità, che di ramifica in tutte le zone grigie».
Poi è scattato il desiderio di scrivere un romanzo d’avventura. Un bel rischio?
«Negli ultimi anni i lettori sono diventati sempre più un circolo ristretto e reazionario, che parla sempre delle stesse cose. Ho pensato che, inserendo timbri emotivi di vario tipo, passando dal comico al tragico e al farsesco, ed elementi che mi hanno fatto innamorare della lettura da giovanissimo, potrei contribuire a far leggere più gente. Ho iniziato a leggere da bambino, mi sono appassionato ai cicli di Dumas padre e figlio. E mi sono cimentato con un romanzo picaresco, che ti lascia grande libertà, permettendoti di fare quello che vuoi, di inserire qualsiasi elemento. Il problema è riuscire a tenere tutto assieme. Mi sembra che in Italia non ci sia qualcosa del genere, che, invece, in anni recenti è stato affrontato da Chabon ed Eggers negli Stati Uniti».
È, infatti, un romanzo per molti versi felicemente anomalo, con una vis comica che non si riscontra nella maggior parte dei romanzi italiani contemporanei. Come ha convinto Frassinelli a pubblicarlo?
«Ho iniziato a scrivere e a far leggere qualcosa ad amici scrittori, al mio agente, Ugo Marchetti, che mi evidenziavano certi aspetti, punti di forza o debolezza. Il risultato finale mi soddisfa, nel senso che credo si veda la capacità di cambiare registro e atmosfera rapidamente, anche all’interno di un singolo periodo. E poi ci sono la tendenza alla digressione, all’approfondimento dei dettagli, a dare un certo spazio a personaggi secondari, tutte cose che oggi sono viste come fumo negli occhi da molti editori. Il mio, Giovanni Francesio (di recente nominato responsabile della narrativa italiana per Mondadori), fortunatamente è un tipo molto pragmatico, gli piace come scrivo e, visto che La mafia mi rende nervoso era andato bene e aveva facilmente raggiunto gli obiettivi, mi ha sostenuto».
Intravedere il Don Chisciotte di Cervantes, i romanzi di Salgari e la celeberrima pellicola di Monicelli, L’armata Brancaleone fra le fonti di ispirazione della sua tragicommedia è abbastanza semplice, ma c’è dell’altro. Cosa?
«I film di Bud Spencer e Terence Hill, il più riuscito è Altrimenti ci arrabbiamo, ma tutti in generale sono stati importanti per Attìa, il loro ritmo e l’utilizzo dei tempi morti, la lentezza di certi momenti che non hanno senso, i dialoghi, qualcosa di studiato e funzionale allo sfruttamento del ritmo delle scene d’azione e delle gag. C’entrano certe cose di Ciprì e Maresco, penso al documentario su Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. E poi mi hanno influenzato anche l’opera dei pupi, conosciuta attraverso Mimmo Cuticchio, i fumetti e i videogiochi. L’umorismo di Ron Gilbert, a cui il libro è dedicato, ha permeato la mia adolescenza, con i suoi leggendari videogames per la Lucas Art. Attìa è un calderone in cui ho cercato di mettere dentro tante risonanze e influenze, quelle che derivano dai film che guardo, dai libri che leggo, dalla musica che ascolto, dai videogame a cui gioco. Ho pensato anche ai Monty Python, a Douglas Adams, a Vonnegut, all’utilizzo che fa dell’ironia per rivelare contesti distopici della realtà, potrei citare anche i fratelli Coen e John Kennedy Toole».
Non cita influenze siciliane. Fra i conterranei c’è qualcuno che ammira o che considera un compagno di viaggio? Certe sue pagine grottesche possono far pensare a Cappellani…
«Non so, credo che i nostri percorsi siano diversi, mi sembra instradato in certa tradizione catanese. Il mio scrittore siciliano preferito è Giuseppe Fava, Passione di Michele è un capolavoro. Poi c’è un libro pazzesco, Robledo di Daniele Zito (edito da Fazi, ndr). L’avesse scritto un sudamericano ci sarebbero state pagina sui giornali e lodi sperticate su vari blog letterari, sarebbe stato scritto di una rivoluzione letteraria, siccome è italiano… Zito. però, con Robledo fa un passaggio ulteriore rispetto a Bolaño, non solo si inventa un mondo, ma costruisce un dialogo critico che rimanda alla realtà. Mi ha incuriosito il gotico di Orazio Labbate, anche perché il mio prossimo romanzo ha a che fare con certe forme di narrativa gotica, oltre che con quella sudamericana, penso a Piglia e a Saer; è ambientato a Mazara del Vallo, che associo un po’ al Messico di Rulfo. Mi sembra che in Labbate ci sia compiacimento del saper scrivere, anche un compiacimento e una costruzione barocca che abbiano una funzione, ma ci sta, io alla sua età scrivevo cose di una vanagloria insostenibile. Per quanto mi secchi dirlo, se penso a La mafia mi rende nervoso, certe tematiche e l’eliminazione della retorica dalla narrazione possono far pensare a Pif, il mio romanzo può sembrare successivo, se si pensa a quando è stato pubblicato, ma è stato scritto molti anni prima. Credo che i risultati e gli approcci siano diversi, io sono più nichilista, lui fa parte della generazione della Pantera, io non ho ideali, lui sì, visto che sembra voler ricondurre tutto a una qualche forma di speranza o di insegnamento edificante, cose che tendenzialmente io non faccio».