Identità ebraica e vendetta, torna Arnold Zweig

Avventure rocambolesche e dense d’ironia caratterizzano “La famiglia Klopfer” dell’altro Zweig. L’ultimo erede della dinastia, raccontando di sognatori, contadini, commercianti e intellettuali, si districa fra la complessità della psiche umana e l’affresco del mondo ebraico-tedesco di fine Ottocento

L’ottocentesca decadenza fin de siècle caratterizza le pagine di una riscoperta della casa editrice Giuntina, La famiglia Klopfer (88 pagine, 10 euro), la cui edizione originale risale al 1909. L’autore, allora esordiente, scomparso nel 1968, è Arnold Zweig, il traduttore Enrico Paventi, che si confronta con uno scrittore che è profondo conoscitore della psicologia umana e ne imbeve le proprie pagine. Nato da famiglia ebraica, nella Slesia meridionale, prussiana, Arnold Zweig ricevette un’educazione tradizionale, fu presto influenzato dal sionismo del padre, un artigiano, e infine approdò al socialismo. La sua produzione narrativa è abbastanza vasta (il suo progetto più ambizioso è un interrotto ciclo di romanzi), come quella saggistica, La famiglia Klopfer è solo la punta dell’iceberg di una ricerca artistica costante, di taglio sociologico-politico, influenzata in modo traumatico dalla partecipazione alla prima guerra mondiale.

Tra sradicamento e assimilazione

È un piccolo libro carico di motivi, quello proposto da Giuntina oltre un secolo dopo la sua prima edizione. Arnold Zweig, per sfuggire alla persecuzione dei nazisti, lasciò la Germania nel 1933, ritornandovi solo quindici anni dopo, dopo un esilio in vari paesi, Palestina compresa. E sradicamento, assimilazione, diaspora e odissee fanno parte dell’orizzonte della famiglia giunta in Germania dalla Russia, protagonista del suo primissimo racconto. Sognatori, contadini, commercianti, intellettuali, pezzi della famiglia Klopfer, si susseguono nell’arco di un secolo, fra avventure rocambolesche, dense di ironia, e un’identità ebraica scandagliata nel profondo. La voce narrante (introdotta da quella della sorella Miriam, con cui ha una relazione incestuosa) è di Heinrich Klopfer, già primario di un ospedale gerosolimitano, poi scrittore per odio contro il padre Peter, per vendicarsi del quale scrive un memoir: suicidandosi, il letterato irrisolto e decadente Peter, ha tolto ai figli passato e futuro, forse anche il contatto con il cuore dell’ebraismo. E lui, Heinrich, ama e disprezza il popolo ebraico, sentendo di appartenere e non appartenere a esso (anche per via della madre, la «pagana» contessa Gritti).

L’impotenza creativa

L’impotenza creativa di Heinrich, ultimo dei Klopfer, è altro tema centrale del racconto di Arnold Zweig. È metafora di una più generale sterilità, quello dello scrittore moderno, senza radici, senza una comunità di riferimento. Ed è concretissima realtà per gli ultimi eredi dei Klopfer, Heinrich e Miriam, fratello e sorella, incapaci di amare davvero e di vivere, che rovesciano la più solida realtà ebraica, la famiglia. Arnold Zweig, relativamente in poche pagine, si districa fra la complessità della psiche umana e l’affresco di generazioni del mondo ebraico-tedesco ancora vivo, vivissimo, non ancora intaccato dal massacro nazista.

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