Intervista a Sergej Lebedev, autore de “Il confine dell’oblio”: “Col mio libro, nato da uno choc personale, scendo negli abissi della storia del XX secolo. La propaganda del governo russo mostra le glorie del passato sovietico, cancellandone i crimini, ha bisogno di quei valori per provare che l’unità della nazione è più importante dei diritti umani. Gli elogi di Aleksievic? È la mia autrice russa preferita, va dove uno scrittore dovrebbe andare”
La sua è una delle voci più autorevoli della letteratura russa contemporanea. Sergej Lebedev, moscovita, 37 anni, è con pochi altri (uno è Zachar Prilepin) l’erede della generazione che li ha preceduti, i vari Erofeev, Ulitskaya, Sorokin e Pelevin. Ha all’attivo quattro romanzi, e Il confine dell’oblio (360 pagine, 18,50 euro), che gli ha aperto le porte del successo internazionale, è il suo primo (ne abbiamo scritto qui) tradotto in italiano, da Rosa Mauro, pubblicato dall’editore Keller. La scintilla del romanzo di Lebedev è il legame tra il giovane protagonista e un vicino di casa anziano e cieco, che non esita a sacrificare la propria vita – siamo nel 1991, in Russia, ai tempi del golpe fallito – per salvarlo. Il ragazzo, poi adulto, indagherà sul passato di quell’uomo, finendo in Siberia, nel cuore dei gulag, uno dei “buchi neri” della storia.
Lebedev, il suo romanzo Il confine dell’oblio è un’ossessiva odissea negli abissi dei gulag, un minuzioso scavo. Il passato da geologo quanto ha influenzato la sua scrittura?
«Non posso immaginare la mia scrittura senza le mia esperienza da geologo. La geologia è la più grande ed intrigante spy story al mondo. Solo con con pochi resti e fossili devi riuscire a ricostruire ciò che è successo milioni di anni fa. Senza considerare che le stesse prove sono state trasformate a causa di numerosi processi geologici. Questa prospettiva è affine alla storia continuamente scritta e riscritta, nel corso dell’esistenza dell’Urss. E mi ha regalato anche un certo tipo di lessico, visto che c’è talmente tanta poesia nella geologia, una scienza che studia l’erosione e la distruzione, i principali poteri che formano la terra stessa».
Memoir? Inchiesta? Giallo? Riflessione? Sembra impossibile collocare il suo romanzo in un preciso genere…
«Quando scavi a fondo, nelle acque profonde, incontri un mondo che è sconosciuto al mondo in superficie. Negli abissi tutto ciò che resta degli esseri umani sono i relitti, i resti di antichi scontri e catastrofi. In un certo senso il libro è un’immersione nei mondi sotterranei della storia del ventesimo secolo».
Descrive il crollo dell’Urss con gli occhi di un bimbo e di un ragazzo. La fine di quell’impero che lezione è stata per il mondo?
«Per me la lezione è che un impero non muore mai in un momento definito. La fine non risale affatto all’agosto 1991. L’Urss non esiste più come entità politica o ideologica, ma come elemento di una nostalgia sociale, adesso, in Russia è più potente di quanto non fosse negli anni Ottanta. Quindi è come il disastro di Chernobyl, dovresti non solo chiudere il reattore, ma pulire continuamente tutta l’area intorno, perché certi elementi sono pericolosi e attivi per un lungo periodo».
Ci sono tracce autobiografiche in tutti i suoi romanzi. L’elemento personale è per lei imprescindibile? Non immagina di scrivere una storia di pura fiction?
«L’elemento autobiografico non è affatto necessario nella mia scrittura. Ma questo libro è nato dallo choc e dalla vergogna personale, quando improvvisamente ho scoperto che il secondo marito della mia nonna materna era un capo del campo in un gulag Scrivere il libro, portare alla luce la storia di quest’uomo, è stato il mio modo di gestire questa scoperta».
Il protagonista del romanzo cerca di svelare i misteri di un uomo e svela i segreti di una nazione, l’Urss. La Russia di oggi ricorda il suo passato o lo ha dimenticato?
«Oggi il governo russo ha bisogno di valori sacri e direi soprannaturali per provare alla Russia il suo naturale diritto al potere, per provare che l’unità della nazione è più importante dei diritti umani e delle vite private. In questo senso il passato, il passato sovietico e imperiale, è il miglior materiale per creare certi esempi. Tutta la grande macchina propagandistica è usata per mostrare la gloria del passato e cancellare tutta la verità sui crimini sovietici».
Qualche critico l’ha collocata nel solco di Aleksandr Solženicyn o Varlam Šalamov? Che effetto le ha fatto?
«Entrambi hanno scritto di uomini nei campi. Io in realtà sto cercando di mostrare cosa è accaduto dopo, come il trauma della repressione sia passato di generazione in generazione, come le nostre vite quotidiane siano state condizionate dal destino e dal silenzio dei nostri antenati. Possiamo dire che cerco di creare un ponte tra il loro lavoro e la nostra condizione attuale».
E come ha reagito agli elogi di Svetlana Aleksievic e Karl Over Knausgaard?
«Svetlana Aleksievic è la mia autrice russa preferita. Credo che da sola lei stia creando tutta la letteratura post-sovietica. Va esattamente dove uno scrittore dovrebbe andare, negli spazi creati dai silenzi forzati, dal dolore e dal lutto. Dà voce a coloro che sono stati rifiutati, abbandonati, persi tra i ricordi. Il suo nome per me onora la letteratura. La sua vittoria del premio Nobel è stata una delle migliori notizie degli ultimi dieci anni. Per quanto riguarda Knausgaard non ho avuto la fortuna di leggere i suoi libri, visto che non sono stati tradotti in russo. Ma nell’autunno 2017, quando è venuto a Mosca per scrivere un reportage sul centenario della rivoluzione bolscevica ero la sua guida e l’ho aiutato a leggere i sogni del passato».
Com’è nata la collaborazione e l’opportunità d’essere tradotto in italiano dalla casa editrice Keller?
«Ho un’agente, il suo nome è Galina Dursthoff, è una dei pochi che rappresenta la letteratura russa all’estero. Fa parte del suo lavoro trovare nuovi contratti. Ma tralasciando questo, credo che ogni buon libro abbia il suo specifico destino e i suoi mezzi per promuoversi, e se davvero merita di essere letto, troverà il modo per trovare comunque un suo pubblico».
Quali scrittori suoi connazionali non hanno ancora ricevuto la giusta attenzione all’estero?
«Ci sono molti nomi, ma vorrei citare Sasha Filippenko con il suo libro Red Cross. Per questo lavoro ha attinto agli archivi del Comitato internazionale della Croce Rossa sui prigionieri di guerra, racconta dei sovietivi trattati come subumani dai tedeschi e, poi, come traditori, dai propri connazionali»
Letture italiane che hanno contato nella sua formazione?
«Dino Buzzati è uno dei più importanti autori per me e ho riletto Il deserto dei Tartari, mentre lavoravo a Il confine dell’oblio. Buzzati ci porta al confine di un mondo abitato, sull’orlo di ogni sorta di vita civile, nel trascendente sconosciuto, ed è esattamente quello che anche io ho cercato di fare». (Questa intervista è stata pubblicata in forma ridotta sul Giornale di Sicilia)